Il periodo delle arance

Serie: Cronache psicoattive


Non vi è nessun ordine cronologico o collegamento diretto tra gli episodi.

Le giornate erano uggiose, me lo ricordo, c’era un tempo molto inglese ma non portavo mai l’ombrello. Soltanto una volta lo feci, Alex rimase molto deluso da me. Mi prendeva in giro.

Più che una casa, quel posto era un nido, ma non il tipo di nido che uno s’immagina quando si fa uso di questa metafora. C’era tutto, concentrato in un piccolo spazio. Era come entrare nel cervello di Alex. Un disordine impressionante, con pochissimi punti di riferimento molto instabili. Mi piaceva andare a trovarlo lì. Era un lungo viaggio da casa mia, due ore, bus, treno e poi un altro autobus. Questo non mi è mai pesato.

L’appartamento era all’ultimo piano del palazzo, c’era un piccolo balcone, da lassù guardavamo l’incrocio ove c’era un gran viavai di ambulanze. L’ ospedale non era lontano. Era affascinante osservare le persone, così piccine, vivere le proprie vite.

La prima volta che andai a trovarlo mi fece una foto con una polaroid. “Fotografo gli ospiti quando vengono qui per la prima volta” mi disse. Poi l’attaccò al muro, con lo scotch giallo, vicino a quelle di un altro paio di amici. Era un fanatico di quello scotch industriale, lo usava per qualsiasi cosa, comprese riparazioni di scarpe o per attaccare enormi cartoni alle pareti su cui poi dipingeva. Le foto non erano appese a caso, nulla era a caso su quelle pareti, c’era una particolare armonia, di forme e colori.

Passavamo il tempo a sorseggiare birra e fumavamo seduti imbacuccati sul balcone scambiandoci poche parole.

Una volta mi chiese:

“Allora cosa ti tatuo?”

“Un piccione, la testa di un piccione”

“Okay”

Ed è quello che fece, un rudimentale tatuaggio fatto senza la macchinetta, soltanto un ago, che veniva conficcato lentamente nella carne, un puntino dopo l’altro. Sdraiata sul letto, stavo bene, anche se soffrivo. Quel giorno mi regalò un piccolo tubetto di crema che gli era avanzato dal suo ultimo tatuaggio. A distanza di anni, ogni volta che sento l’odore di quella crema mi viene in mente questo periodo. Esattamente come con il profumo delle arance sbucciate.

Quando andavo a trovarlo, appena entrata, annunciavo di aver portato le arance e c’era sempre un momento in cui le tiravo fuori e mi mettevo a sbucciarne una, gli oli contenuti nella buccia schizzavano tutto intorno disperdendosi nell’aria. Erano arance sanguigne e speravamo sempre che la polpa fosse bella rossa, accadeva che non lo fosse per niente e ci sentissimo presi in giro. Ce la gustavamo uno spicchio dopo l’altro. Poi ci mettevamo a giocare con le bucce, piegandole accanto all’accendino acceso, così da creare delle piccole fiammate molto soddisfacenti.

Sapevo che Alex stesse male ma non sapevo il perché e nemmeno come aiutarlo. Mi sembrava in un certo senso che mi stessi prendendo cura di lui quando gli porgevo quegli spicchi d’arancia e non mi rendevo conto di quanto vicina fosse l’oscurità.

Il periodo delle arance finì ed io non entrai mai più in quella casa.

Serie: Cronache psicoattive


Avete messo Mi Piace1 apprezzamentoPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. È veramente bello, questo tuo breve racconto. Come una romantica pennellata dai toni pastello. Profumi evocativi e una vecchia polaroid. Tanta nostalgia, come a guardare da una finestra i protagonisti. Complimenti