Il Piccione e la Vergine
Un piccione stava appollaiato per terra nei pressi della Stazione di Venezia Santa Lucia, in mezzo a quella enorme calca di turisti che si può accumulare sulle sponde del Canal Grande solo in una domenica mattina come questa. Ma il piccolo pennuto dal piumaggio grigiastro non si curava affatto degli esseri umani: invece, il suo sguardo era fisso e rivolto verso l’alto. Guardava alla immobile statua della Immacolata Vergine Maria di fronte a sé. Lo sguardo eterno e bronzeo di lei sarebbe parso a chiunque rassicurante, ma lui la guardava come un condannato a morte guarda la ghigliottina.
“Perché condannarmi ad una vita del genere?” proruppe il colombo. ” E perché farmi credere che questa fosse il più grande dono che avrei mai potuto ricevere?”
La Vergine non rispose.
“Non possiedo la vista di un’aquila, non ho il becco né duro come quello di un picchio né bello come quello di un tucano; non ho il piumaggio colorato di un pappagallo, non ho l’intelligenza di un corvo né la scaltrezza di una gazza. Io non sono nulla, non valgo niente.” Con queste parole il piccione sembrava cercare invano pietà nel viso della statua, la cui espressione appariva a lui fredda, indifferente. Eppure la Vergine tendeva le mani verso terra, col palmo rivolto verso il prossimo; cosa può essere questo se non un’atto di carità? Un invito ad un abbraccio caloroso?
“Smettila. Sei una falsa. Mostri compassione coi tuoi gesti, ma se volessi davvero aiutarmi scenderesti da quel tuo piedistallo, da cui continui a guardarmi dall’alto verso il basso.”
Seguirono diversi secondi di silenzio; un silenzio, in realtà, solo apparente, siccome intorno al piccione e alla Vergine Venezia non aveva minimamente perso la sua vitalità domenicale: un’enorme massa di gente in fila più o meno ordinata aspettava l’arrivo del traghetto alla fermata, mentre altra si faceva dei selfie con amici e parenti con il Canal Grande e la Chiesa di San Simeon Piccolo nello sfondo, per poi riprendere a passeggiare; solo una manciata si era avvicinata per osservare e fare foto e video ad una elegante garzetta bianca che stava all’erta sull’orlo del molo, in attesa del momento giusto per lanciarsi in avanti e catturare un pesciolino col proprio lungo becco.
Il piccione, però, non aveva finito di parlare e continuò nel suo discorso con ancora più veemenza di prima:
“È tutta colpa tua! Tu hai scelto per me! Tu mi hai crudelmente destinato ad una vita inutile senza che io potessi dire niente a riguardo! Sono senza dignità! Nessuno qui ha il minimo rispetto per me! La maggior parte degli esseri umani mi evita, mi guarda male e guai se mi azzardo a fare i miei bisogni nelle loro vicinanze o quelle delle loro proprietà! E quando qualche buon samaritano decide di lanciarmi qualche mollica di pane, ecco che arriva sua maestà il gabbiano reale zampegialle! Che vuole tutto per sé e contro il quale non ho speranza di accaparrarmi neanche la più piccola delle briciole!”
La Vergine non rispose alle accuse.
Il piccione si fermò un momento. Più parlava e più sentiva il martellare del proprio cuore sotto le piume al ricordo della merda che era stata la sua esistenza fino a quel momento. Lo stomaco gli si contorceva come uno straccio bagnato che viene strizzato per estrarne l’acqua. La vista gli si sfocava mentre alcune lacrime scendevano a goccioloni per le sue guance piumate. Diede quindi voce alla sua crescente disperazione, urlando e inveendo come nessun piccione a Venezia fino ad allora:
“Come cazzo ti è venuto in mente di farmi una violenza del genere! Qualcuno deve averti dato una botta in testa! Ma di quelle forti! Dico io! Possibile che io sia l’unica merda in un mondo di capolavori?! Cazzo! Cazzo! Maledetta statua senza risposte!”
“Hai ragione.” Le parole calme della Vergine di bronzo interruppero quelle del piccione come un muro di cemento fermerebbe un’automobile in corsa.
“È causa di gran dolore per me vederti soffrire, piccola creatura. Lo dico sinceramente. È chiaro che quando si è tentato di dare a questo universo un equilibrio sia stato commesso l’imperdonabile errore di dare a te una vita indegna rispetto alle altre. Spero tu possa accettare le mie più umili scuse. Ora che mi sono resa conto del tuo dolore vedrai che il fato sarà più gentile con te.”
In pochi secondi le lacrime smisero di bagnare il volto del piccolo pennuto e si asciugarono. Il becco, proprio quando sembrava aver solo iniziato ad aver dato voce a parole così taglienti, smise di urlare. Proprio quando il loro tremare sembrava le avrebbe potute far cadere ad una ad una, le piume smisero di muoversi così freneticamente dalla rabbia e dalla disperazione. Proprio quando l’anima aveva iniziato a contorcersi come le onde di un mare in tempesta, essa ritrovò pace nelle inaspettate parole della statua.
Finalmente al piccione sembrò che qualcuno capisse il suo dolore.
“Finalmente,” pensò “ha ammesso di aver commesso un errore nel darmi una vita tanto misera.”
Finalmente ogni suo problema parve scomparire come d’incanto e il grosso peso del suo dolore, che portava sulle sue piume da tempo, sembrò venirgli delicatamente rimosso per essere dato e portato da chi veramente ne era la causa.
“Grazie, Vergine, grazie di cuore di aver ascoltato le mie parole.”
E così il piccione si voltò a guardare Venezia. Stette contento ad ammirarne l’elegante e poetica bellezza per diversi secondi prima di prendere il volo. Volteggiò leggiadramente sopra il Canal Grande, a filo d’acqua, quasi increspandone la superficie. Agilmente si mise a girare attorno alla cupola verdognola della Chiesa di San Simeon Piccolo, prima di tornare verso la stazione dei treni, superarla e sparire all’orizzonte.
La Vergine rimase a guardare fisso il punto in cui fino a poco prima un piccolo piccione depresso era venuto per darle la colpa di tutti i suoi problemi; dalla sua espressione bronzea non emergevano sensazioni né positive né negative a riguardo. Rimase immobile anche quando un gabbiano zampegialle le atterrò di fianco. Il gabbiano aveva seguito tutta la scena e ora che le stava affianco la guardava negli occhi.
“Però non sei scesa dal tuo piedistallo.”
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