Il puttino

Serie: Di ora in ora


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Dopo aver ignorato, ancora una volta, quella presenza oltre la porta di casa, Lina riceve la telefonata da un'amica, per chiederle se può passare a trovarla. Poco dopo le viene recapitata una busta che lei interpreta come una lettera minatoria, senza rendersi conto che si tratta solo di pubblicità.

Stesso giorno, di lunedì, ore 11: Lina aveva dato un’occhiata al contenitore sul tavolo, col sugo congelato. La sottile patina di ghiaccio sopra il coperchio stava iniziando a sciogliersi, gocciolando. Il sugo era semplice: pomodoro fresco, cipolla, basilico e un pizzico di peperoncino. Sul tipo di pasta da cuocere Lina aveva ancora qualche dubbio; forse spaghetti, oppure mezze penne rigate. Un piatto di pasta all’arrabbiata, un po’ piccante, con un pizzico di zucchero nel sugo, per smorzare il gusto leggermente acidulo dei pomodori, come aveva visto fare tante volte da sua madre. Lei preparava la salsa in abbondanza, con la passata di pomodori freschi di campo, maturati al sole di luglio. La quantità minima erano cinque casse da venti chili ciascuna: un quintale di pomodori che venivano sbollentati e poi triturati con il macinino meccanico a manovella. La polpa liquida, rossa e densa, colava dal  filtro che tratteneva i semi. Durante la prolungata ebollizione, nel grande calderone posizionato sopra un fornello, in uno spazio aperto del cortile, insieme al vapore si diffondeva nell’aria un odore  intenso, agro-dolce. Dopo aver imbottigliato la salsa, tappato e avvolto le bottiglie con gli stracci, per evitare le rotture, si mettevano di nuovo a bollire in un grosso fusto di ferro, per garantire una conserva di lunga durata. La provvista per un anno.

Sua madre preparava con le sue mani anche vari tipi di pasta fresca: is malloreddus, is pillus, sa fregula, is cruxonis… (gli gnocchetti, la fregola, le tagliatelle, i ravioli).

Lina aveva controllato nella dispensa, se fosse rimasta un po’ di farina, poi aveva preso due uova, il sale, un bicchiere d’acqua e aveva deciso di impastare. La busta della farina era quasi vuota, se avesse lessato due patate avrebbe potuto preparare un buon piatto di gnocchi.

Mentre le patate, nella pentola, iniziavano a cuocere, Lina aveva acceso la TV. La foto della bambina ucraina, con la schiena segnata da una scritta, stava continuando  a circolare nei vari programmi televisivi. Era l’immagine toccante e stridente di una piccola creatura che appariva schedata come una pericolosa ricercata. La madre temeva che la piccola potesse ritrovarsi sola, per ovvi motivi legati ai rischi di quel conflitto atroce. La bambina era troppo piccola per poter spiegare chi fosse; perciò sua madre aveva dovuto segnare sulla nuda pelle della sua schiena, i suoi dati personali, come documento di identità.

Le foto e i video commoventi o strazianti di quello scenario di devastazione e morte erano innumerevoli. Mentre migliaia di persone rischiavano di impazzire di dolore per i lutti, per le ferite, per le torture, per le sevizie subite; qualcun altro continuava a imporre ordini di abbattimento selvaggio tra i militari e i tanti civili di quel popolo, senza distinzione alcuna di età o di genere.

Altri ancora, a debita distanza, trascorrevano il loro tempo discutendo negli studi televisivi se, motivazioni politiche ed economiche a parte, lo sterminatore fosse sano e lucido di mente, oppure no. Per alcuni c’era il dubbio, per altri la certezza, che quei comportamenti fossero dettati dalla logica, da un piano strategico lucido e sensato. Quindi normale – tutto sommato – considerando che si trattava di una guerra – aveva pensato Lina, cercando di sdrammatizzare per non piangere. Come dire: “La guerra è la guerra, bellezza!” A va beh, allora complimenti! Quindi non c’era motivo di stupirsi o di restare sgomenti. Bastava farci l’abitudine. Oppure utilizzare la vignetta di un famoso vignettista che, molti anni prima, aveva disegnato un bambino (in quel caso Afghano), con la testa solo tratteggiata, da sostituire con la foto di un altro bambino più fortunato, figlio di chi provoca o favorisce  o considera giusta questa o quell’altra guerra.

In quel momento le era tornata in mente l’immagine di un incubo che l’aveva tormentata durante la notte precedente. Lei indossava una tuta mimetica e marciava insieme a un gruppo di soldati. Stavano conducendo un prigioniero, attraverso un labirinto sotterraneo, verso uno scantinato che sembrava una cantina, piena di botti e silos, tutti con la stessa scritta: vodka. Era un luogo buio, tetro, senza finestre. Una sola porta blindata per  entrare o per uscire. Il prigioniero era stato portato dentro dicendogli che se gli fosse venuta sete, avrebbe avuto a disposizione ettolitri di quella bevanda, gratis e di ottima qualità. Lui però non sembrava felice e quando si era voltato aveva mostrato i suoi occhi di ghiaccio, gli incisivi affilati come quelli del conte Dracula, dietro una maschera di ferro come quella di Hannibal Lecter, il cannibale, * e aveva emesso un verso da licantropo. Forse era arrabbiato perché non gli avevano lasciato niente da mangiare o da rosicchiare, a parte le sue unghie, che erano un po’ lunghette. Uno dei soldati, a quel punto, l’aveva spinto in fondo, lasciandolo solo, in quella cantina buia, ben chiusa da un’indistruttibile porta blindata e targata con un’incisione che somigliava vagamente a quella di un puttino con le ali spezzate.

                                                                                                        ***                                                                                        

 Le patate erano quasi cotte. Lina ne aveva infilzato una con la forchetta. Il cuore non era ancora abbastanza morbido. La sveglia segnava quasi mezzogiorno. Poi aveva preso una bottiglia di Karmis e l’aveva messa in frigo. Era un bianco secco dell’Isola dei Nuraghi, un vermentino tagliato con vernaccia, che odorava di vino buono. Le note floreali o fruttate o speziate o (verrebbe da dire) legnate, cioè con sentore di legni particolari, lei non riusciva a sentirli. Se un vino era spunto si accorgeva subito annusandolo; così come riusciva a riconoscere il vino rosso più invecchiato anche dal colore, ma non essendo una sommelier, non riusciva a sentire nient’altro. Il gusto dolce-amaro, il colore paglierino e l’aroma gradevole, rendevano il Karmis invitante e amabile. Si sposava bene con il pesce, ma si poteva bere volentieri anche come vino da dessert. Lina ne teneva sempre una o due bottiglie di scorta, da offrire agli amici che non gradivano il solito caffè, tè o birra. Da una ricerca su Google aveva scoperto che il nome Karmis derivava dalla parola vite. E allora: vite alla vita, con un brindisi, appena sarebbe arrivata la sua cara amica Mena. Poco dopo era andata fuori sul terrazzo, per tagliare qualche altra foglia di basilico fresco, da aggiungere al sugo. Erano ricresciute un po’ di ortiche. I germogli erano teneri: li aveva sradicati con l’intenzione di unirli all’impasto per fare gli gnocchi. Mentre era china sul vaso, aveva sentito una voce maschile: “Oh, oh, senti!” Si era guardata intorno e poi in alto. Sul balcone del primo piano aveva visto la faccia di bronzo dell’inquilino che, sporgendosi in avanti, la stava chiamando. Mentre sua moglie stendeva, le era caduta giù la sua camicia nuova Crocodile e le stava chiedendo di lanciargliela. Lina era rimasta spiazzata; non intendeva discutere, né fare dispetti o tanto meno guerre. Non si era neppure accorta di quell’indumento, che era rimasto impigliato tra il gelsomino rosa e una piantina di rose. L’aveva presa, appallottolata e dopo aver annodato i polsini tra loro, perché quel fagotto non si sciogliesse, senza dire neanche mezza parola, gliel’aveva lanciata. Tornando dentro Lina aveva realizzato il motivo per cui, quella mattina, lui era andato a suonare il campanello del suo appartamento, per ben tre volte. Lei, vedendolo attraverso l’occhio magico della porta,  aveva preferito non aprire. Aveva fatto finta di non esserci, perché non si fidava. Aveva paura che oltre il “canicidio” e i soliti attentati ai fiori, potesse fare del male anche a lei. 

*Hannibal Lecter: protagonista del film “Il silenzio degli innocenti”.

Serie: Di ora in ora


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Discussioni

  1. Finalmente svelato il mistero sull’identità di chi ha bussato alla porta. Nemmeno io, avrei aperto…
    Anche in questo racconto hai saputo coinvolgere le mie papille gustative e fatto riemergere dolci ricordi. Il cibo è un veicolo universale di pace (al contrario della vodka, che secondo me fa più danni che altro). Quanto alla guerra è una brutta sensazione quando essa appare normale argomento dal talk show, quasi si stesse parlando di un film. Dovremmo pensare a come risolvere la questione lasciando le chiacchiere ad un altro momento, ma gli interessi fanno sempre da padroni

    1. La guerra e` un tasto dolente. In questo caso, sulla questione del conflitto piu` recente e piu` vicino a noi, con la minaccia del nucleare che incombe, qualsiasi commento da parte nostra che amiamo scrivere, pare inutile a risolvere questo dramma. E se la rabbia genera solo altra rabbia che entra in circolo nell’ aria che ci circonda, forse dovremmo avere piu` compassione anche verso i criminali peggiori che provocano massacri di civili innocenti e non solo di soldati. Io pero`non riesco ad augurare lunga vita o buona vita a questi “signori”. Per questo ho pensato all’ idea della cantina di vodka che, come dici tu, tanto bene non fa.

    2. La guerra e` un tasto dolente. In questo caso, sulla questione del conflitto piu` recente e piu` vicino a noi, con la minaccia del nucleare che incombe, qualsiasi commento da parte nostra che amiamo scrivere, e` del tutto inutile per risolvere questo dramma. E se la rabbia genera solo altra rabbia che entra in circolo nell’ aria che ci circonda, forse dovremmo avere piu` compassione anche verso i criminali peggiori che provocano massacri di civili innocenti e non solo di soldati. Io pero`non riesco ad augurare lunga vita o buona vita a questi “signori”. Per questo ho pensato all’ idea della cantina di vodka che, come dici tu, tanto bene non fa.

  2. “Dopo aver imbottigliato la salsa, tappato e avvolto le bottiglie con gli stracci, per evitare le rotture, si mettevano di nuovo a bollire in un grosso fusto di ferro, per garantire una conserva di lunga durata. La provvista per un anno.”
    Questo passaggio ha evocato il me ricordi dell’infanzia. Anche mia nonna preparava la passata in questo modo

  3. Le delicate abitudini di Lina, che sembrano essere sempre pronte al “costruire” si scontrano con la distruzione totale delle cose, delle case, delle persone vittime di una guerra, distante ma che ci riguarda. La zuppa di fregola con le arselle, una volta l’ho mangiata cucinata da una signora sarda a Torre dei Corsari. Era piovuto, era settembre inoltrato e a me pareva la cosa più buona del mondo.

    1. Cara Bettina, siamo tutti felici quando qualcuno apprezzo il nostro mare, il nostro cibo e tutte le cose belle che abbiamo, in mezzo ai tanti problemi sociali, politici e di altro genere. Ma forse: tutto il mondo è Paese, come si usa dire. Ciao Bettina.

  4. I vicini, come i paesi confinanti, non si scelgono. Una civile convivenza nasce anche da qui. Poi non c’è da meravigliarsi se conflitti ben più vasti infiammano la terra. Narrazione ben scritta condita dai profumi della tua terra. È un piacere leggerti anche per il palato.

    1. Giustissimo, e’ anche per i tanti conflitti ben piu´ gravi che infiammano la nostra Terra, che mi dico spesso urge imparare ad essere piu´ Gandhiani. Non e’ facile, soprattutto quando i soliti noti, per rincarare la dose, ti fanno la sorpresa ( come oggi), rigandoti di nuovo la macchina. Ma… ci sono mali peggiori e il conforto dei vostri commenti. Grazie Fabius

  5. Molto bello! Mi hai fatto venire una gran fame con quella bella descrizione del sugo e della pasta, ho sentito il profumo e il sapore. Molto toccante anche il riferimento sull’Ucraina. Sono rimasto spiazzato dallo scoprire l’identità di chi bussava, mi ero fatto un’idea diversa. Non vedo l’ora di scoprire cosa succede nella prossima ora!