La Fenice

Serie: Il Quinto Piano


    STAGIONE 1

  • Episodio 1: La Fenice
  • Episodio 2: Inumano

NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Un pompiere e il suo primo incendio.

A Denise: se non ci fossi stata, tutto questo non ci sarebbe stato.

La fenice partì e prese a sfrecciare nella notte. Qualcuno, camminando per la strada, perse la propria ombra nell’oscurità. Mentre gli altri dormivano nelle loro case, quel qualcuno tirò fuori le chiavi per aprire il portone di casa, quando improvvisamente una luce l’investì, ritagliando la sua figura dal buio. Era la fenice.

Su di essa voci profonde e annerite parlavano. Poco prima, nel cuore della notte, una sirena metallica le aveva svegliate ed esse erano subito corse sulla fenice.

“Zona sud, condominio di cinque piani. A chiamare è stata una signora all’interno, piangeva disperata.” Il capitano fece una pausa e guardò nel vuoto. “È bloccata al quarto con sua nipote, ha provato a scappare ma le fiamme le hanno bloccate.”

Sulla strada le ruote fischiavano, nell’aria l’odore di bruciato iniziava a far sentire la propria presenza.

“Elvis!” chiamò il capitano e la nuova recluta fu sull’attenti “Io e te saliamo, quarto e piano. Tito, Stabile, Kafka, voi avrete rispettivamente primo, secondo e terzo piano.”

Le persone iniziavano ad apparire. Man mano che la fenice procedeva, i curiosi iniziavano ad affacciarsi dalle finestre e i più curiosi, invece, a uscire in strada. La luce diventava sempre più forte, sempre più rossa, l’odore di bruciato sempre più invadente e il calore sempre più denso. La folla di curiosi s’aprì e la fenice vi entrò. Gli uomini erano uniti, spalla a spalla l’uno con l’altro; alcuni con addirittura lacrime che già scendevano. Le voci scesero ripide. Una ad una presero le asce e le maschere e per un momento si fermarono a guardare l’incendio.

Il fuoco s’abbuffava di tutto quello che c’era. Le fiamme mordevano senza tregua; prendevano i muri, i mobili, i quadri, le porte, le finestre e se li infilavano in bocca poi, senza neanche assaporarne il gusto, ingoiavano. Il rogo graffiava e ustionava; tutti i colori venivano strappati e stuprati, lasciando soltanto sfumature annerite e cenere che iniziava a volare verso il buio della notte. Al rumore del fuoco si aggiungevano le grida, suoni atroci che spappolavano quel briciolo di speranza che pervadeva i cuori delle voci. Il fuoco ingrassava. Continuava a staccare pezzi di vita dalle case e voracemente li masticava.

I pompieri entrarono nell’androne e il capitano si mise a contarli. Kafka, uno. Stabile, due. Tito, tre. Sé stesso, quattro. Il quinto, Elvis, mancava all’appello. Fuori dal palazzo con l’ascia tra le mani, Elvis era rimasto a contemplare l’incendio. Il suo primo incendio.

“Elvis, cosa fai lì fermo?!” Il capitano era furioso. “Muovi quelle cazzo di gambe e vieni qui!”

L’incantesimo finì. La mano del capitano s’avvinghiò sul braccio di Elvis e con violenza lo trascinò dentro l’edificio, verso la sua morte.

Giù per le scale iniziavano a scendere gli abitanti, quei poveri abitanti che si erano ritrovati bloccati in quell’inferno. Ad ogni volto che incrociava nel fumo, Elvis ripensava a quella povera signora e a quella giovane nipote che presto si sarebbe trovato a dover liberare. E rifletteva. Si domandava se ce l’avrebbe fatta. Si domandava se una giovane recluta di diciannove anni come lui sarebbe stata capace di affrontare quella situazioni. Si domandava se a vincere sarebbe stato lui o il fuoco.

Il quarto piano arrivò presto. Nel fuoco e nelle fiamme il capitano si fermò a guardare Elvis negli occhi. Anche attraverso la maschera il fumo li stava assalendo, facendoli lacrime. Proprio tra una lacrima e l’altra, quello sguardo, feroce e affilato, arrivò diretto, e con sé trasportava un messaggio. “Va’ e fa’ il tuo dovere da pompiere.” Senza proferire una sola parola, il capitano ebbe detto tutto e sparì nel fumo, diretto al quinto piano. Elvis strinse il manico dell’ascia e, deciso, si voltò si centoottanta gradi, verso il primo portone. Tentò di aprirlo. Chiuso. Portò l’ascia dietro la sua spalla destra e l’affondò nella porta. Un pezzo annerito, come spaventato, si piegò all’indietro. Elvis calò nuovamente l’ascia. Il pezzo volò via e al suo posto entrò la mano del pompiere e aprì la porta. Tra il rumore delle fiamme che masticavano violente, la voce di Elvis risuonò acuta.

“C’è nessuno? Sono un pompiere!” Che frase stupida, pensò, credi davvero che qualcuno possa sprecare ossigeno durante un incendio per risponderti? Rimase in silenzio. Un grido.

“Aiutatemi! Qui! Qui!” Attraversò il salone e corse verso la voce. Doveva essere una donna giovane, o almeno così se l’era immaginata, e doveva avere dei lucenti ricci arancioni che si accoppiavano perfettamente con la sua pelle, così chiara da confondersi con la neve. Poi sulla sua immaginazione cadde una trave in fiamme. Il colpo attraversò la maschera e raggiunse il viso. Elvis sentì gli occhi rientrare nella testa, il fiato mancargli e l’ascia cadergli dalle mani. La vista iniziava a sparire e le gambe a cedere mentre il fuoco a lui tamburellava sulla tuta. La donna era troppo lontana ora.

Il suo braccio destro, portando con sé tutto il corpo, si lanciò in avanti, le sue gambe ritrovarono equilibrio ed Elvis tornò in piedi. Riprese l’ascia da terra e la donna gridò di nuovo. “La porta…” provò a dire la donna per poi tossire. “È bloccata!” Elvis fece qualche metro indietro e prima di lanciarsi sulla porta gridò. “Si allontani!” Con un solo colpo la porta venne giù, rivelando la luce della luna. La donna era a terra, con il viso puntato fuori dalla finestra che, aperta, lasciava entrare un briciolo d’ossigeno e i raggi della luna. Si precipitò su di lei, si tolse la maschera e gliela poggiò sul viso. Tolta la mano, Elvis notò che la donna era esattamente come se l’era immaginata: ricci arancioni e pelle talmente chiara da confondersi con la luce della luna. Bizzarro, pensò prima di provare a parlarle, proprio come avevo immaginato. “Ci sono altre persone in casa?”

Il calore iniziò a scottare il suo viso ora senza maschera e il fumo a polverizzargli la gola. “M-mio marito è fuori città, sono sola.” Con un rapido movimento di braccia, il pompiere caricò la donna sulle sue spalle e corse fuori. Ce l’ho fatta, si disse, ho salvato per la prima volta qualcuno! Mentre passava di fronte all’altro portone ripensò all’anziana e a sua nipote. Si immaginò già dentro la casa, mentre con la bambina sulla spalla e la nonna nell’altra si faceva strada tra le fiamme.

Scese le scale e uscì fuori. L’aria non gli era mai sembrata così fresca come in quel momento; fu come uscire dall’Inferno e ritrovarsi direttamente in Paradiso, senza neanche passare per il purgatorio. La folla gli venne incontro e prese la donna. “I soccorsi stanno arrivando” annunciò qualcuno. È fatta, si disse e riprese la sua maschera.

Si voltò, pronto a completare la sua missione, e come per miracolo le vide. Abbracciate tra lacrime e fiamme, la nonna e la nipote correvano fuori dalla bocca di quel Ciacco di fiamme. Mentre la folla correva loro incontro, le due si fermarono. La nonna, come in preda a terribili dolori, muoveva frettolosamente le braccia. Indicava, Indicava dentro l’edificio. E gridava.

“Il vostro capitano!” iniziò l’anziana ai pompieri e s’interruppe per riprendere fiato. “Ci ha salvate! Oh, grazie a dio siete venuti e-”

“Dov’è il capitano ora?”

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