Il Reame dei titoli
Ai confini del mondo, dove il cielo diviene smeraldo al tramonto e roseo al nascere dell’alba, giaceva un umile reame del quale si è persa ogni memoria; forse per vergogna, magari per indifferenza, nessuno lo sa. Io, modestamente, sono l’ultimo abitante rimasto di quelle terre lontane e voglio rendervi gloria decantando i prodigi di quelle genti. Esso era un paese pregno di ricchezza e grondante di meraviglie: chiunque ne scorgesse la bellezza desiderava prendervici fissa dimora o prolungare il proprio soggiorno fino al fallimento; perfino mendicanti ed eremiti vantavano un vita quasi agiata. Il buon re condivideva il proprio oro e le immense riserve di cibo con ciascun abitante, nessuno escluso; tutti dovevano venire ammaliati dalla sua bontà, addirittura gli altri popoli. Ogni pretesto era buono per invadere e conquistare qualsiasi territorio: lì i mugnai vivevano di stenti, quelli avevano il sovrano pacifico ma non troppo filantropo, in alcuni stati il tasso di facce tristi era molto elevato e, così via. Presto, ogni popolo di quella terra, dopo essere stato quasi del tutto massacrato, cadde sotto le grazie del benevolo re vantando, solo da allora, una vita felice. Tutti lavoravano sodo non solo per compiacere il sovrano, ma anche perché si sentivano piccole parti senza identità di un gigantesco meccanismo atto al bene comune.
Un giorno, penso fosse un Martedì, un misterioso viandante apparve per le strade della capitale inchinandosi alle belle donzelle e sfidando a singolar tenzone gli uomini gelosi. Nessuno ovviamente accettò; anche perché questo sfilava nelle piazze affibbiando a se stesso una miriade di titoli impensabili: egli era lo spezzacuori, l’ammazzaspettri, il decapitatroll, lo spietato, l’affascinante, il belgiullare e lo sbriciolaossa. Solo questi riesco a rimembrare ma, vi assicuro, ne ripeté molti altri. Le genti, riversatesi nelle strade, lo seguirono ammutolite ascoltando la narrazione di quell’epiche gesta che tanto ululava, il suo nero mantello vibrava nel vento come l’aura di grande stregone e i suoi occhi sminuivano superbamente chiunque non lo stesse ancora ammirando. Le donne impazzirono ammaliate e gli uomini ringhiarono invidiosi, tutti seppero del misterioso cavaliere.
Poi, con un salto e una mossa atletica, si divincolò da quella folla stupita ed entrò, senza alcun invito ufficiale, nell’immenso palazzo reale.
Per giorni nessuno parlò d’altro; in quella terra ove tutti erano abituati a fare dell’individualità il fardello più gravoso, apparve provvidenzialmente un uomo che ebbe trasformato la sua vita in un’opera d’arte. Discorsi su quale senso avesse l’esistenza si diffusero molto rapidamente tra quelle persone tanto identiche quanto minuscole: le folle cominciarono a sentire il bisogno di incastonare il proprio nome nella memoria collettiva che prima di allora conosceva soltanto il re. Non ricordo esattamente quando avvenne lo screzio: una sera, un signore di mezza età, con la barba arruffata e i capelli color nocciola, scese in piazza gridando a squarciagola il titolo che lui stesso si concesse. Egli era il nascivitelli; per via del parto di una vacca al quale aveva fornito da poco assistenza.
Era dunque così semplice divenire degli eroi?
Ovviamente sì!
Nelle giornate successive ognuno dei popolani si affibbiò i più disparati nomignoli relativi a lavoro, famiglia e salute: il sano, il figliodellavedova, il moribondo, lo stalliere, la schiaccialarve, ecc. Durante ogni conversazione era più il tempo applicato alle presentazioni che quello dedicato ai vari argomenti. Quando due differenti signori portavano un titolo identico, scoppiavano lunghe litigate e violenze di ogni sorta. divenne quindi vietato condividere i titoli.
Quella moda creduta solo passeggera, continuò a crescere ed esplose in tutto il resto del reame. Presto non si seppe più con quali nuovi soprannomi elogiare se stessi; dunque, se la fantasia scarseggiava, era giunta l’ora di compiere vere e proprio imprese, di qualunque tipo. Nacque così una nuova corrente di titoli epici: il cacciastreghe, il suicida, l’automutilato, lo strisciante, lo spaccasassiconlatesta, ve n’erano una miriade.
La gente smise di lavorare per fuggire in cerca di avventure e, dopo qualche anno, le scorte di cibo andarono esaurendosi. Nessuno diede tuttavia alcun peso a quelle preoccupazioni tanto noiose e inutili, nemmeno il re. Ogni individuo decantava in media almeno centosettanta titoli differenti; un bel numero, ma insufficiente per incastonare il proprio nome nella leggenda.
Le persone, tutto a un tratto, cominciarono a morire di fame e a farsi violenza tra di loro; un momento perfetto per la nascita dei primi soprannomi bellici: il rubavivande, il masticacadaveri, lo squarciaomoni, la sterminamaschi, lo spaccacraniconl’ascia, incredibile quanti ce ne fossero. Scoppiò una furiosa guerra civile e nacquero differenti fazioni; se non era uno del tuo stesso gruppo a massacrarti, sarebbe di certo stato un nemico. Spaventosi incendi divamparono in ogni dove bruciando interi villaggi e immense foreste, poi, vista l’enorme debolezza del nostro popolo, venimmo invasi da predatori e briganti atti al solo brigantaggio. Anche in quel momento, proprio sul baratro della fine, parve più importante inventare nuovi soprannomi che preservare la propria esistenza; ora andavano di moda quelli scelti a un passo dalla morte: la fiammaumana, il supplicastranieri, lo affrontafrecce, la spezzatadalcavallo, il mantengol’onoredellamiafamigliatrafiggendomidasoloconunaspada, elogerò per sempre tanta fantasia.
Quella fu la fine del più grande regno mai esistito e ogni abitante ne venne sterminato. Io fui fortunato, poiché fuggii da quel luogo prima che scoppiasse ogni guerra, ma non per furbizia; cercavo solamente nuovi titoli in altri paesi.
Quando tornai fui triste nel vedere tale devastazione: famiglia, amici e conoscenti erano morti, non vi era rimasto nessuno a decantare quelle persone divenute leggende; nemmeno io potei farlo poiché rammentavo a malapena i miei soprannomi. Cercai in lungo e in largo qualche sopravvissuto ma, evidentemente, ero rimasto l’unico. Così la mia mente esplose, incendiata da una spettacolare idea: avrei narrato le gesta eroiche di quel popolo, esaltando me stesso come il vero Eroe; ero io il vincitore di quell’assurdo gioco egocentrico!
Mi presento: sono il narrafiabe, lo spaventabimbi, il figliodelcacc… scusate, questi titoli non sono nulla in confronto a quello che farà di me l’unica e propria Leggenda, poiché io sono e sempre sarò “l’ultimo sopravvissuto”!
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Ciao Andrea, una lunga metafora legata all’egocentrismo dell’uomo che porta in rovina l’intera realtà circostante, e in fondo siamo noi, col nostro pensare a noi stessi a far decadere ciò che costruiamo. Curarsi delle cose più importanti, avere spirito di comunità tralasciando la smania del singolo: solo così si può crescere e andare avanti! Un racconto un pizzico fantasy che fa molto riflettere, che mi è piaciuto molto, in particolare proprio la conclusione! Alla prossima?!