Il ritorno
L’odore di alcol era insopportabile. Alex lo sentiva dappertutto, anche se
non proveniva dalla sua stanza. Era impregnato nei mobili, nei vestiti,
nell’aria che respirava. Con lentezza si sollevò dal letto, raggiungendo a
piedi nudi la finestra. Scostò la tenda, così chiara e consumata da sembrare
trasparente, ritrovandosi a fissare il panorama al di là del vetro. Una
staccionata di legno ammuffito, qualche albero spoglio, il bidone dei rifiuti.
Quando aprì la finestra, una folata di vento gelido lo fece rabbrividire. Non
gli importava del freddo o delle gocce di pioggia che avevano iniziato a
colpirgli il viso. Voleva soltanto dimenticare, per qualche istante, l’odore
nauseabondo di suo padre.
Dopo aver preso una boccata d’aria, Alex richiuse la finestra. Si voltò,
osservando la sua stanza da letto. Piccola, essenziale. L’unico luogo decente
dell’intera abitazione. Alex si impegnava così tanto a tenerla pulita ed
ordinata, che a volte si sentiva un po’ fuori di testa per questo. Puliva i
mobili, lavava i vetri, sbatteva il tappeto, quasi ogni giorno. Aveva bisogno
di un angolo tutto suo, caldo ed accogliente, lontano anni luce dal
sudiciume che regnava fuori dalla sua porta. Aveva bisogno di normalità,
di una vita che non fosse la sua.
Si avvicinò all’armadio, aprendo l’anta, osservando sé stesso davanti allo
specchio: un ragazzo di ventidue anni, magro, con il viso pallido e i capelli
biondi come il sole. Due intensi occhi verdi lo stavano fissando con velata
malinconia. Gli occhi ereditati da sua madre, la donna che non aveva mai
avuto il privilegio di conoscere. L’aveva vista soltanto in una foto, l’unica
che il padre aveva conservato dopo la sua morte. La teneva in un cassetto,
nascosta tra vecchi documenti e le scorte di sigarette.
Come se non valesse nulla. Si era trasformata in un pezzetto di carta
ingiallita, il ricordo sbiadito di una persona ormai perduta.
Lo sguardo di Alex si soffermò sulla custodia di legno che spuntava tra i
vestiti. Era enorme ed occupava quasi metà armadio. D’istinto, spostò le
camice che la nascondevano, sfiorandola leggermente con le dita.
La sua chitarra. Era la cosa più preziosa che avesse mai posseduto.
L’aveva comprata un paio d’anni prima, utilizzando esclusivamente le
mance che i clienti del bar gli avevano dato. Lo stipendio che guadagnava
come barista non lo aveva mai utilizzato per sfizi personali. Non poteva.
Quei soldi servivano per vivere. Per mangiare, per pagare le bollette, per
mantenere un padre alcolizzato e nullafacente.
Con l’indice toccò la piccola incisione che cercava sempre di non
guardare, posta alla base della custodia. La amava e odiava, allo stesso
tempo e con la stessa intensità. AJ. Alex e Joyce.
Due nomi che, messi insieme, facevano ad Alex l’effetto di una coltellata.
Una coltellata piena di calore, dolore, nostalgia. Ricordava ancora il giorno
in cui Joyce l’aveva incisa, nascosta in un angolo della sua stanza, convinta
che Alex non la stesse osservando. Quando si era accorta della sua
presenza, era sobbalzata, sorridendo. Il ricordo di quel sorriso uccideva
Alex ogni volta che lo rievocava.
Con uno strattone prelevò dall’armadio una felpa nera ed un paio di jeans
scuri. Li indossò velocemente, barcollando verso la porta, bloccandosi tutto
d’un tratto davanti ad essa. Appoggiò le mani sul legno ruvido e consumato,
socchiudendo gli occhi, cercando di non farle tremare.
Quella giornata lo avrebbe distrutto. Se lo sentiva fin dentro le ossa, in
ogni angolo di sé stesso.
Quando Alex aprì la porta, l’odore di alcol e sudore gli perforò le narici.
Si portò una mano alla bocca, trattenendo a stento un conato di vomito. La
moquette del corridoio era cosparsa di chiazze scure. Urina. Cercando di
respirare il meno possibile, attraversò il corridoio come se fosse un
percorso ad ostacoli, raggiungendo il salotto. In quella stanza, senza aria né
luce, trovò suo padre.
Alex si irrigidì. Quando osservava quell’uomo, si sentiva sempre scosso
da violenti fremiti di rabbia. Era una visione raccapricciante, ogni volta.
Tutti i giorni. Rappresentava una vita completamente priva di speranza, un
vicolo buio ed insidioso che Alex era costretto a percorrere contro la sua
volontà. Nonostante lo detestasse, l’uomo accasciato sulla poltrona, con la
bava alla bocca e i vestiti macchiati di birra, era suo padre. Questo non
poteva cambiarlo.
Senza curarsi di non fare rumore, attraversò la stanza a grandi falcate,
raggiungendo la finestra. Sollevò le persiane, permettendo alla luce di
inondare la stanza. Dei grugniti incomprensibili si diffusero nell’aria
quando Alex spalancò la finestra.
Finalmente poteva riprendere a respirare.
«Che… Che cazzo stai facendo?»
Alex si avvicinò al tavolino accanto alla poltrona, ignorando il padre che
lo stava fissando con occhi semiaperti. Raccolse le lattine di birra, i
mozziconi di sigarette, i fazzoletti sporchi di vomito.
«Sto parlando… con te. Ehi, idiota. Sto parlando con te!»
«Vai a farti una doccia.» rispose Alex, raggiungendo la cucina con le
braccia cariche di spazzatura. «E’ da giorni che non ti lavi.»
«E cosa vuoi che me ne importi?» biascicò l’uomo, ridendo e tossendo
allo stesso tempo.
Alex gettò i rifiuti in un enorme sacco nero, si lavò le mani, sfregandole
come se volesse strapparsi la pelle dalla carne. Prese dal cassetto uno
straccio e tornò in salotto.
«Cosa fai oggi? Se vai a fare la spesa comprami qualche birra. Penso di
averle finite…»
«Certo, come no.» sussurrò Alex, inginocchiandosi di fronte al tavolino
per pulirlo.
«Allora?» sbraitò l’uomo, agitandosi sulla poltrona. «Si può sapere che
cazzo fai oggi o è un segreto?»
Alex chiuse gli occhi per qualche secondo, asciugando la superficie del
tavolo con forza. Le mani erano rigide come lastre di metallo.
«Dove vuoi che vada?» rispose con voce tremante, carica di rabbia. «A
lavoro. Le bollette non si pagano da sole.»
«Non vai a trovare quegli idioti degli Hamilton, oggi?»
Alex si sollevò di scatto da terra, fissando il padre con occhi gelidi.
«Smettila di parlare di loro in quel modo.»
L’uomo scoppiò in una risata del tutto fuori controllo. Iniziò a battere le
mani contro le ginocchia, a colpire il pavimento con i piedi nudi e sporchi.
«Sei davvero buffo, Alex!» esclamò quest’ultimo, asciugandosi le lacrime
dal volto. «Non ho mai capito perché ti piacciano tanto quei ricconi di
merda. Voglio dire, che cazzo c’entri tu con loro? Hanno così tanti soldi che
probabilmente li utilizzano addirittura per pulirsi il culo.»
Alex sentì la rabbia percorrergli la schiena, acceleragli il respiro,
facendolo sentire come se stesse per scoppiare. Per rompersi in mille pezzi.
Odiava sentirsi così. Provava vergogna per sé stesso. Non avrebbe dovuto
detestare suo padre in quel modo.
«Smettila.» ripeté Alex, stringendo le mani a pugno, cercando di
controllarsi. «Dio, conosci gli Hamilton da sempre. Rose frequentava la
mamma, erano amiche d’infanzia. Ci hanno sempre trattato con rispetto,
nonostante la nostra vita sia paragonabile ad un grande, sconfinato, secchio
d’immondizia.»
«Non mi piacciono!» urlò l’uomo, battendo le mani sui braccioli
consumati della poltrona. «Portami una birra, Alex. Non ne posso più…
Portami qualcosa!»
Alex rimase a fissare il padre, immobile. Non si mosse di un millimetro.
«Che cazzo hai da guardare, idiota? Mi hai sentito? Portami una cazzo di
birra!»
Alex ignorò nuovamente l’uomo. Prese lo straccio, rimasto abbandonato
sopra il tavolino, e riprese a pulire. Dopo un po’ passò al pavimento. Il
padre si sporse dalla poltrona, ansimando per la fatica.
«Ehi…» bisbigliò, ridacchiando senza motivo. «Sei strano oggi. Hai una
faccia più idiota del solito. Che succede?»
Alex si voltò lentamente verso il padre, palesemente sorpreso per la
domanda. Non era possibile che ricordasse. Glielo aveva soltanto
accennato, di sfuggita. Alex non si confidava mai con lui.
«Oggi torna Joyce.»
L’aveva detto. Dirlo ad alta voce rendeva il ritorno di Joyce così reale da
disorientarlo. Abbassò lo sguardo, appoggiando le mani, tutto d’un tratto
instabili, sulle piastrelle appiccicose che stava pulendo.
«Joyce!» esclamò il padre, colpendosi la fronte con la mano. «Che cazzo,
la tua amica! La figlia minore degli Hamilton! Quella che hai sempre
voluto portarti a letto senza mai riuscirci, vero Alex?»
Il ragazzo si sentì in procinto di crollare. Di prendere a pugni quell’uomo
alcolizzato che proprio non riusciva a capire. Non vedeva la rabbia, la
sofferenza, il terrore che animavano lo sguardo di Alex.
«Cazzo, conosci quella ragazza da quando sei nato! E’ la cantante, quella
del gruppo che avevate formato qualche anno fa. Com’è che vi chiamavate?
Fantaglory? Cazzo, non me lo ricordo…»
Alex si sollevò dal pavimento, riuscendo in qualche modo a farlo. Sentiva
tutti i muscoli del corpo irrigiditi, respirava a fatica. Strinse tra le mani lo
straccio bagnato, avvicinandosi alla cucina con passo malfermo.
«Ehi, quella tipa non mi piace. Gli Hamilton e i loro cazzo di soldi…. Mi
ero completamente dimenticato di quella ragazza. Era partita per il college,
vero? »
Alex rientrò dalla cucina senza dire una parola. Non rivolse nemmeno
un’occhiata al padre. Lui attendeva una risposta, fissando il figlio con occhi
carichi di attesa. Ma il ragazzo lo ignorò, di nuovo. Doveva farlo, altrimenti
sarebbe impazzito. Si avvicinò alla porta, indossò le scarpe da ginnastica e
prese le chiavi dal mobiletto accanto.
«Dove stai andando?» ringhiò l’uomo, cercando di sollevarsi dalla
poltrona. «Sto parlando con te. Alex!»
La porta si chiuse alle spalle del ragazzo prima che potesse verificare se il
padre fosse riuscito ad alzarsi. Davvero improbabile. Alex scese di corsa i
pochi gradini che lo separavano dal cortile, aprì il cancelletto e raggiunse la
strada.
Il silenzio che lo accolse fu così piacevole da farlo sorridere. Aveva inconsapevolmente
chiuso gli occhi, assecondando l’istinto di far sparire il mondo, almeno per qualche istante.
Aveva bisogno di pace. Bisogno di riprendere le redini in mano.
Doveva correre a casa degli Hamilton. Joyce era tornata.
La vita di Alex poteva riprendere a scorrere.
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