Il viaggio di Sandu

Ma cosa ci sono venuti a fare in India?

Quello che faceva più rabbia a Giosuè Sarti era che i criticoni non erano persone qualunque. No! Erano i suoi più stretti amici. Quelli che, facendogli una testa così, lo avevano convinto a fare questo viaggio in India. 

«Vedrai ti cambia la vita, vedrai torni che sei un altro» dicevano.

Gente arciconvinta che – nel tepore della loro casuccia – leggeva i mistici indù, faceva yoga e mangiava vegano.

E che adesso – finalmente in India – se ne tornava in albergo, visibilmente schifata, pronta a vendere un parente per una doccia e un asciugamano profumato.

Ipocriti, pensò Giosuè salutandoli, mentre loro si accalcavano sui taxi come ratti nella stiva del Titanic.

Una volta rimasto solo, si asciugò il collo con un fazzoletto di cotone, faceva un caldo inumano, e raggiunse la piazza centrale della città. Osservò con attenzione quello spazio aperto circondato da edifici rosa salmone, illuminato dal sole del primo pomeriggio. Davanti ai suoi occhi si dipanava un numero considerevole di venditori ambulanti che esponevano stoffe colorate, collane di pietre semi-preziose e spezie mai viste prima. Un gruppetto di donne, vestite di sari sgargianti, stava trattando sul prezzo, vociando. 

Un clacson più forte degli altri lo richiamò al momento presente.

Giosuè si rese conto di essere finito in mezzo alla strada di scorrimento, e, per non finire sdraiato, con un fulmineo colpo di reni, raggiunse quella che reputò essere la zona pedonale.

Ma il clacson non accennava a smettere. Anzi, come un tenore che svetta sul coro, gli aveva completamente rapito l’udito, e l’attenzione. Allora vide un tuk-tuk color carta da zucchero zigzagare fra una comitiva di grassi turisti americani che sbraitava in mezzo alla strada, e poi fermarsi proprio davanti a lui.

Il fumo uscito dal tubo di scappamento del veicolo, un anonimo tuk-tuk a tre ruote con cabina semiaperta, si diradò lasciando intravedere la scritta ‘Sandu Yatra’, che tradotto significa il viaggio di Sandu o roba del genere.

Sventolandosi la mano sul naso, per allontanare l’olezzo di benzina, Giosuè lanciò un’occhiata più attenta al conducente del veicolo, squadrandolo dal basso verso l’alto. Sul pianale del mezzo posavano due infradito fatte di giunco e delle unghie che se le avesse viste un podologo si sarebbe messo a bestemmiare. Vestito di un cotonaccio bianco, con la camicia aperta fino all’ombelico. Un nasone adunco e storto giaceva picassianamente fra due occhietti vispi e furbi. Il volto era completamente incorniciato da un barbone nero a punta, da cui lampeggiava un sorriso ipnotico. Complessivamente lo si sarebbe detto un uomo magro, se non fosse stato per una panza che gli esondava dallo sterno come un panettone gigante.

In Italia, comunemente, nessuno colloquierebbe con un articolo del genere. Ma qui siamo in una sperduta città dell’India, dove tipi come Sandu se la comandano alla grande. Per non parlare, poi, se parlano pure italiano. 

Come in questo caso.

«Italiano?» disse Sandu sorridendo a Giosuè, che rispose annuendo. «Ehh, qui molti italiani, sai? Vengono qua per fare viaggio…come dite? Scopri sé stessi.» Poi, dopo aver salutato un collega che trasportava alcuni turisti americani, chiese: «E tu? Perché tu sei qui?»

Giosuè gli raccontò brevemente perché si trovava lì.

Al che Sandu, dopo essersi fatto qualche bella risata indiana, rispose: «Allora tu pronto per viaggio di Sandu».

Per natura Giosuè era uno schivo. Cioè, una persona che in Europa si definirebbe schiva, sulle sue. Ma l’Oriente cambiava tutto. Certo, dentro di lui una vocina europea flebile che gli diceva “nte fidà!” resisteva, ma la volontà la mise subito a tacere.

«Vabbuò, Sandu. E facciamoci sto viaggio…»

Del resto, se sono sopravvissuto ad Amsterdam…, pensò sistemandosi sul veicolo dell’indiano che partì immediatamente a cannone, sparpagliando uno stormo di corvi che banchettava col cadavere di una capra.

Se togliete che guidava come un dissennato nel micidiale traffico incrociato, e che, più di una volta, Giosuè si sentì sul punto di lasciarci la pelle, Sandu fu una guida stupenda. 

Meglio di Kit Carson.

In appena due ore gli fece fare il giro della città, fra strade che sembravano zoo all’aria aperta, con scoiattoli sgambettanti, cani randagi e perfino qualche elefante.

Visitarono il palazzo dei Maharaja, i templi scolpiti nella pietra, qualche imponente architettura coloniale britannica. Una pausetta al chioschetto di Karan detto ‘Sundar ladka’ (il bel ragazzo), per assaggiare la migliore Vada Pav, un panino con la crocchetta di patata, che una scimmietta – spuntata dal nulla – cercò di rubargli. 

E poi di nuovo via. Nel quartiere sacro, per vedere uno spettacolo di danza kathak.

Giosuè era estasiato. 

Non aveva mai visto tanti colori, tanti volti, olfato tanti odori (alcuni decisamente stomachevoli), toccato tante cose nuove in tutta la sua vita. 

Quando il tuk-tuk di Sandu, dribblando tre vacche, raggiunse il luogo di partenza, si sentiva ebbro di sensazioni.

«Grazie, Sandu, sono stato da Dio» disse maneggiando una cospicua dose di rupie indiane.

Ma il conducente alla vista dei soldi si rabbuiò.

Oddio, ma che lo ho offeso? si domandò Giosuè.

«Io no bisogno soldi. Bisogno altro aiuto, sì?»

Detto questo, Sandu iniziò a raccontargli una storia complicata, di cui Giosuè capì solo che suo zio, una volta, era un santone molto famoso, che però aveva cannato una benedizione a un attore di Bollywood, aveva perduto credibilità e lavoro, e adesso giaceva alcolizzato in una stamberga poco distante. 

«Ma che devo fare io?» replicò Giosuè perplesso. 

«Veni da mio zio. Fa finta essere attore italiano. Lui fa benedizione a te. Poi mandi video dove fa vedere che tu famoso in Italiaaa, che tu tanto successooo. Così lui felice e torna lavoro. Tu così aiuta amico Sandu!» 

Non si sa come, Giosuè si lasciò convincere.

Arrivati dallo zio di Sandu, ce ne vollero delle buone per risvegliare il vecchio stordito.

Lo tirarono su. Gli misero i paramenti sacri.

Sandu fece cenno a Giosuè di inginocchiarsi per la cerimonia.

Ma la benedizione del vecchio, consistente  in un colpo in testa, fu troppo forte.

Giosuè non si riebbe mai più. 

Rimanendo un ebete per il resto della vita.


Un noto opinionista italiano, intervistato su questa vicenda che riempì i tabloid, chiosò così: 

«Viaggiare può significare ritrovarsi oppure… perdersi»

E sorrise ammiccando alle telecamere. 

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Discussioni

  1. Questo racconto ti fa ridere di gusto per come smonta l’ipocrisia dei viaggi “spirituali”, e l’incontro con Sandu è esilarante. Ho trovato veramente bello il finale, così inaspettato e tragico (a tratti comico).

  2. L’esigenza di penetrare l’ignoto è talvolta così disperatamente insopprimibile da soverchiare il più elementare buon senso conservativo.

    Purtroppo ci si rende conto troppo tardi che ciò che si brama di trovare all’esterno è una carenza dell’interno.

    Complimenti per lo stile vivido ma sempre ironico

  3. Un racconto credibile, ironico e un po’ spietato di una realtà illusoria in cui tanti sono caduti, persi e scomparsi. Le espressioni dialettali danno una nota di colore e alleggeriscono il dramma di una morte parzialmente annunciata.
    Racconto ben fatto, letto d’ un fiato.

  4. Il tuo sguardo è davvero interessante. Un linguaggio diretto che attinge dalla lingua parlata, ma senza farsi coinvolgere e senza cadere nella trappola dei luoghi comuni.
    Detto questo, mi verrebbe da aggiungere che Giosuè, alla fine, la pace dei sensi l’ha trovata (non come voleva lui, certo, ma l’universo i desideri ce li esaudisce a modo suo, ahimè 😅)
    Complimenti.