IL TEMPO SE NE VA

Il fruscio delle foglie e il cigolio fastidioso della banderuola sul tetto del vicino, sono i segni inequivocabili dell’arrivo del maestrale. Lei non ha ancora fatto il cambio armadio, e chi ci pensa in quei momenti, però Daniela sì, ne è sicura, l’estate ha messo la parole fine e quell’arrivo inaspettato, che ha preso in contropiede anche gli esperti del meteo, porta con sé quell’aria fredda, che ben presto porterà a spasso il caldo, spalancando le porte al generale inverno, dopo che il luogotenente autunno, avrà portato a termine il suo compito.

Ma per suo padre tutto questo non ha più importanza, tutti i giorni sono uguali, le stagioni per lui non passano più. Davanti agli occhi di quell’uomo, le foglie cadono, i merli si guadagnano le punte degli alberi, per intonare la più romantica delle serenate, i ragazzini corrono dietro ad un pallone e i rondoni sfrecciano nel cielo azzurro. Neppure la neve, quella silenziosa pioggia bianca, che nelle notti gelide di luna piena, riflette la luce lunare in un bagliore cristallino, ha più significato per lui.

Daniela si alza dal letto, apre le persiane, allarga le tende. La luce del giorno saluta la sua camera da letto, e lei saluta il volto di suo padre, forse da un po’ seduto sul letto in attesa di un qualcosa, che solo nella sua testa può succedere.

“Ciao papà, sei già sveglio?” Una carezza, un bacio leggero sulla fronte.

Lui non le risponde. Chissà se questa mattina la riconoscerà come sua figlia, o se ancora una volta, vedrà in lei, la moglie scomparsa da tanti anni.

Le sistema la giacca del pigiama, lo aiuta ad alzarsi. Un filo di barba bianca, gli occhi nel vuoto.

“No” si dice Daniela, “non riuscirò mai a farci l’abitudine”.

Come a tutte quelle cose che non ci si da il giusto peso, affinché non ci si trova ad affrontarle, così anche lei, egoisticamente, aveva alzato le spalle o prestato poco orecchio, a chi parlava dell’Alzehimer, quella maledetta forma più comune di demenza degenerativa, che come il maestrale spazza via le nubi e le ultime speranze delle foglie di restare aggrappate ai rami, così la maledetta malattia, spazza via le residue resistenze di chi cerca di restare aggrappato ai ricordi, alla vita normale.

Lui non gli ha ancora rivolto una parola quella mattina, e Daniela, non avrebbe ma sperato di trovarsi a dire, meglio così. Delle volte erano insulti, urla.

“Signor Pietro, adesso ci facciamo belli”. Con un sorriso anticipò il saluto di suo padre, che ancora una volta si rivolge lei con il nome di sua madre, Lucia.

“Si papà, sono qui”.

I medici le hanno detto di insistere, di non assecondare la “sua” realtà, ma di “farlo” vivere nella realtà.

I passi lenti, brevi, verso il bagno. In silenzio. La mattina era così. Per Pietro il risveglio era faticoso. Lui che al mattino scattava in piedi verso il posto di lavoro di Sarto, nella sua bottega sotto casa.

“Hai preparato la colazione a Daniela, Lucia?”

“Si papà la mamma ha preparato tutto”.

“Sei una brava donna Lucia. Ti amo”.

“Ora siedi qui, che riempio la vasca”.

Per Daniela non era così semplice seguire il consiglio dei medici. Come poteva non assecondare suo padre. Lottava con la voglia di prendere la parte della moglie, rispondere a quelle dolci frase, e con la disperazione nel vedere e sentire suo padre, lontano dalla realtà.

Il tempo se ne va.

Una lacrima.

“Quel vestito da dove è sbucato, che impressione vederlo indossato, se ti vede tua madre lo sai, questa volta finiamo nei guai…”.

Daniela non sapeva se in quei momenti, canticchiando i primi versi di quella canzone di Celentano, suo padre sapeva di essere li con lei. La prima volta che gliela sentì intonare, gli mancò la forza nelle gambe dall’emozione, e le lacrime sgorgarono come fiumi.

Avrebbe dovuto essersi abituata, ma invece ogni volta era sempre un pugno diretto al cuore. Suo padre amava cantare, sotto la doccia, in negozio, in bicicletta e se non erano le parole era il fischiare a dettare la melodia. Succedeva ancora, e solo immerso nella vasca da bagno e solo quella canzone, come se fosse un filo d’acciaio con il passato, quel poco di vita che la malattia ancora, non era riuscita ad inghiottire nelle sue viscere più profonde.

Suo padre amava canzonarla, seguendo proprio le parole del testo, e in quelle parole, un tempo odiate, Daniela, ora vi ritrovava tutti quei momenti passati con suo padre.

Quella canzone sembrava scritta e cucita addosso solo per lei, ma probabilmente, si adattava ad ogni figlia e ad ogni padre.

Ma li, in quei versetti, ora Daniela sapeva, esserci tutto quell’amore che suo padre ha voluto dargli, racchiudendolo nelle parole di quella canzone, che mai si sarebbe persa nel tempo, perché una radio, un servizio televisivo, un passante stonato, qualcuno l’avrebbe risuonata ed allora lei, si sarebbe sempre ricordata di lui, del suo amore.

“Al telefono è sempre un segreto, quante cose in un filo di fiato, e vorrei domandarti chi è, ma lo so che hai vergogna di me”.

Ed era stato proprio così. Si aveva vergogna di lui, ma ora non più. Dando da braccetto a suo padre, lo accompagnava per strada, fiera di quell’uomo, che era andato sempre incontro a testa alta, ad ogni maestrale della vita, per quella sua unica figlia, per darle ciò che la vita le avrebbe chiesto.

“E tra poco la sera uscirai e quelle sere non dormirò mai”.

Un bacio al moroso o all’amica, un saluto ferma sul marciapiede rivolta alla macchina che se ne andava nel cuore della notte, e poi su lo sguardo verso l’alto, verso la finestra della camera di suo padre. L’abat-jour era accesa, la luce filtrava dalle persiane. Lui era sveglio ad aspettarla, e quanto odiava che fosse così, lei non era più una bambina, era una donna.

Saliva le scale a due a due, entrava in casa pronta a scatenare le proteste, ma aperta la porta, la luce era già spenta e suo padre fingendo di dormire, sorrideva nel buio.

“È abbastanza calda l’acqua papà?”

Lui le rispondeva si Lucia, va bene, e finiva ancora con il chiedere della figlia, se dormisse o se era già a scuola.

Daniela lisciava quel corpo del padre con il sapone, rivedendo quei muscoli tonici, che oggi altro non erano che parte morta di braccia stanche, addormentate.

Suo padre non aveva mai alzato una mano su di lei, ne tanto meno su sua madre, ed ogni volta nel leggerlo su di un giornale o sentirne la notizia in televisione, Daniela si chiedeva come un uomo, un essere umano, potesse, volesse voler infierire su di un suo simile.

Il pendolo del corridoio, scoccava le otto e mezza.

Prima della malattia di suo padre, Daniela alla stessa ora, aveva già acceso il suo computer e fatto registrare la prima mezz’ora di lavoro. Lei Manager di una grossa casa cinematografica, era solita iniziare presto il lavoro, per finire tardi la sera.

Non vi era stato grosso spazio per altro negli ultimi quindici, dei suoi trentasei anni di donna. L’amore per un uomo, si era perso nel tempo dell’adolescenza e da li in poi, la priorità era divenuto il suo ufficio. Del sesso occasionale con un collega prima e con un vecchio amico poi, ma con l’arrivo della bastarda malattia di suo padre, Daniela aveva portato a zero tutta la sua vita, annullato tutto, ora aveva altro a cui dover pensare.

Prese e scartò ben presto, la decisione di affidare suo padre ad una badante, voleva godersi Pietro fino in fondo.

A portar via sua madre dagli affetti e da questa terra, era stato un incidente ferroviario, causato da un malfunzionamento del treno, che costò la vita ad altre diciotto persone.

Non aveva avuto il tempo di salutare sua madre quella mattina, e presto si convinse che così il destino aveva deciso fosse scritto. Ora non voleva fare la stessa cosa con suo padre.

Suo padre, che si guardava nello specchio senza vedersi, mentre lei ora, gli radeva il viso. Suo padre, con la sua malattia, l’ospite inatteso, presentatosi appunto, sempre troppo in anticipo, e assolutamente senza regalo. Quel maestrale che nella vita, arriva a stravolgere tutto, ma che ora Daniela, nonostante tutto, riflessa nello specchio a fianco il volto di suo padre, lei aveva accolto con gratitudine, perché le aveva imposto di fermarsi e di vedere ciò che è importante al mondo, ciò per cui vale la pena essere se stessi.

“Intanto il tempo se ne va, e non ritorni più bambina”.

Ma negli occhi di quell’uomo, il volto riflesso con il suo nello specchio, era quello della sua bambina, che mai smetterà in calzettoni per mettere le calze a rete, anche se il tempo se ne andrà, per non tornare mai più.

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Discussioni

  1. Ciao Massimo, ho letto alcuni dei tuoi racconti. Ho notato che abbondano le parti descrittive e le riflessioni o i ricordi, generalmente scorrevoli. Pochi dialoghi e un ritmo narrativo che varia poco nel tono. In quest’ultimo ho apprezzato soprattutto il tema importante della cura nei confronti del genitore anziano affetto da alzehimer. So quanto sia difficile questo compito, per esperienza professionale e famigliare.
    Per dare un po` di brio alla narrazione, con un tono ironico, oppure drammatico,
    in qualche punto avrei utilizzato le parole urlate dal padre di Daniela: gli insulti, le continue lamentele, le imprecazioni o anche le maledizioni che sono spesso presenti nei comportamenti quotidiani di chi ha una demenza senile. Per chi li assiste ed e´ coinvolto emotivamente, c’e´ poco da stare allegri. Serve tanta pazienza, che si mantiene a lungo nel tempo, solo se c’e ´un legame affettivo molto forte. Parlarne o scriverne e condividere, credo possa essere utile.

    1. Ciao Maria Luisa. Ti ringrazio per la tua recensione ai miei racconti! Sono tutti scritti vecchi, e hanno seguito un pò l’evolversi dei miei stati d’animo se vogliamo…. Principalmente sono autore di testi di commedie brillanti, sono il regista di una Filodrammatica piacentina, e capisco cosa intendi per dialogo e scorrevolezza e brio nel racconto, che assolutamente ricerco nei testi teatrali! Grazie mille!!!!