Il tracollo

Serie: Il labirinto


14. IL DESTINO

Mosse tre passi in corridoio, il dorso nudo, il bicchiere in una mano e la camicia nell’altra. Era l’immagine dello squallore, un povero relitto, era così evidente. A metà strada tra la cucina e il bagno, vide se stesso in un lontano futuro, il bicchiere in una mano e la camicia nell’altra, e capì che il suo destino era segnato.

15. IL RIFLESSO

Faceva quel che faceva per essere non ciò che era, ma ciò che avrebbe voluto. E faceva e faceva. Ma nello sguardo altrui vedeva poi il riflesso di quello che faceva, il se stesso che avrebbe voluto. E si chiedeva allora se lui non fosse stato quel riflesso, nulla di meno quindi di quel che avrebbe voluto.

16. LA PRIGIONIA

Il cancello ruotò sui cardini e il chiavistello scattò. Ora, tra le nude pareti, c’era solo lui.

17. L’OBLIO

Aveva perso il cuore Karl. Voleva dirlo, ma non poteva, perché, senza più il cuore, non restava che il silenzio.

18. IL CIONDOLO

Cucito sul maglione, all’altezza del cuore, Karl portava un ciondolo, un anello di metallo con una pie-tra verde. Era una specie d’occhio che guardava malinconicamente verso il basso.

«Perché pende così?» gli aveva chiesto un giorno una bambina, e lui s’era perso in spiegazioni sulla cucitura imperfetta e sui tentativi fatti per raddrizzarla.

«Perché è triste» avrebbe dovuto rispondere. Ma era abituato a tener conto delle ragioni del mondo, non delle sue.

19. LA CONFUSIONE

Karl riconosceva a volte sui visi degli altri le stesse sue fatiche, i suoi stessi affanni. Ma affioravano nello specchio degli occhi, mentre lui si sforzava di nasconderle.

Perciò pensava che, al di là delle apparenze, un abisso continuasse a dividerlo dagli altri.

20. LE ILLUSIONI

Non sopportava i tentennamenti della sorte, perciò inciampava nelle inezie. La sua euforia cresceva nell’attesa del bello e del buono che presto avrebbe colto e, come nei capricci dei bambini, imbizziva se la realtà prendeva un altro corso. Consapevole di questa sua fragilità, resisteva alle prime avvisa-glie di sconfitta, ma una nuova nube che veniva a oscurare l’orizzonte rendeva la tensione insopportabile. Allora il futuro si sgretolava e l’entusiasmo sfumava all’istante. Quando questo accadeva, Karl respingeva l’idea del successo con la stessa veemenza con cui l’aveva accolta, quasi che solo il più completo fallimento potesse ridar fiato all’ottimismo.

21. I GESTI

Prese la saponetta e aprì il rubinetto. Era presto per andare a letto, ma tant’è. Lei era perduta. Infinitamente lontana, nella nudità di quei gesti, nella loro meccanica ritualità, esattamente come, in quello che sembrava un brutto sogno, un giorno se l’era immaginato.

22. LA PORTA

La porta non si sarebbe più aperta. Un’oscura se-rie di codici, una combinazione segreta, bloccava la serratura e solo il caso avrebbe permesso a qualcuno di ricomporne un giorno la sequenza.

23. L’AVVENTORE

Karl conosceva le sue spalle curve, l’andatura da sparviero e il mezzo sorriso che dava alla sua bocca una piega vigliacca. Il vecchio avanzò nel locale e il gestore gli mosse incontro, lo guidò tra i tavoli e scostò una sedia per farlo accomodare.

Non c’era vineria della città in cui quell’uomo non mettesse piede. Sedeva a tavoli di anziani sui quali esercitava una certa presa. Parlava un italiano accurato, in quei luoghi consacrati al dialetto, con un piglio da carta stampata, e gli altri lo ascoltavano in silenzio. Poteva esser stato un giornalista, un giornalista sportivo forse, a giudicare dalle lezioni di calcio che sciorinava come teoremi.

Karl ne evitava lo sguardo. Riconosceva in lui un che di sordido, il taglio squallido della solitudine, che, pensava, era anche il suo, temeva quindi di dargli di sé la stessa immagine. Indubbiamente avevano qualcosa in comune, le buone maniere, ad esempio, che distinguevano entrambi dalla massa degli altri clienti; e quel pellegrinare per i medesimi locali. Perciò, vedendolo arrivare, Karl si alzò dal suo posto e sgusciò verso il fondo della sala, dove un tavolo riparato da una colonna gli avrebbe permesso di bere il suo vino senza essere notato.

24. GLI ABITI

A volte indossava abiti ricchi, velluti e sete, mantelli d’oro e blu. Poi inclinava il capo davanti allo specchio in un moto di stupore, sollevando il busto in un respiro ampio e il braccio come un’ala. Subito però guardava altrove, prima che la sua immagine riflessa gli si imprimesse negli occhi. Poteva in questo modo osservarsi senza sapere d’averlo fatto né cosa avesse veduto.

Capitava anche che, così abbigliato, volesse mostrarsi in pubblico, ma un folletto maligno gli diceva che allora le sue splendide vesti sarebbero svanite. Sarebbe bastato esibirne un solo lembo per vederle dissolvere all’istante e convincersi così che mai fossero esistite.

25. IL FOGLIO

Karl accartocciò il foglio. Scrivere, pensava, è un salto oltre se stessi, un dialogo con un tu immaginario o una moltitudine dispersa, un interlocutore fantastico che si disseta con le tue parole. Ma gli sembrava che anche questa confabulazione coi suoi fantasmi si fosse interrotta. Gli riusciva impossibile credere che qualcuno, fosse pure un’entità così vaga, s’accorgesse di lui.

26. EPITAFFIO

“Dal mio cilindro –scrisse- trassi una polvere di stelle, fazzoletti colorati, e ne feci meraviglie, perché si credesse che quello fossi io”.

27. LA FIACCOLA

Gli parve d’aver colto l’essenziale, una verità assoluta, una linfa per il mondo. Ma non aveva scoperto che il suo cuore. Gli sembrò d’aver acceso una fiaccola capace di splendere nei secoli, ma era una luce sufficiente appena a rischiarare il suo cammino, la strada che si preparava a percorrere.

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