Il treno
Marco Levratti, prima di salire sul treno, si diede una sistemata al nodo della cravatta e si ravviò i capelli. Aveva un appuntamento importante a Milano per un nuovo lavoro e ci teneva a presentarsi al meglio. Guardò l’orologio al polso e vide che erano le nove del mattino: perfetto, sarebbe arrivato a Milano nel primo pomeriggio. Cercò un posto libero nello scompartimento, ma era già occupato da una famiglia.
I due bambini correvano sui sedili e vedeva che la madre faceva fatica a tenerli a bada.
«Mi scusi, ma di solito sono più disciplinati… oggi non so cosa sia preso a tutti e due», disse la donna.
Marco si era appena seduto che proprio il maschietto gli sgusciò davanti, e uno degli scarpini lasciò una pedata sulla sua giacca Ralph Lauren. Marco trattenne un’imprecazione.
«Non si preoccupi… sono bambini!» disse, cercando di atteggiare la faccia a un sorriso di circostanza. In realtà li avrebbe strozzati entrambi, lì davanti ai genitori.
Con una mano cercò alla meglio di togliere la pedata.
Finalmente il padre si impose e li prese tutti e due. Ora li teneva come due agnellini belanti ai fianchi:
«Vi ho presi, eh?… mascalzoncelli!» disse, cercando di impostare la voce a un tono autoritario, ma si sentiva che era raggiante di felicità.
E questo Marco lo capiva e lo sentiva: erano la tipica famiglia felice, e non artefatta alla “Mulino Bianco”, ma vera e reale.
Il treno si fermò ad una fermata.
«Mi scusi ancora», disse la donna.
Lui fece un cenno come a dire che non c’era problema.
«Lei non scende qui con noi?», chiese l’uomo.
«No, proseguo. Grazie e arrivederci.»
Mentre il treno ripartiva, fece un cenno di saluto anche ai due mostriciattoli che, per tutta risposta, gli fecero due linguacce. Chissà perché, quando vide la famiglia là sulla banchina della stazione, sentì come un groppo allo stomaco.
Pochi minuti dopo salì una coppia senza figli. Camminavano vicini, le mani intrecciate, parlando piano e ridendo. Marco li osservò, percependo la calma e la gioia silenziosa della loro vita condivisa.
Mentre il treno riprendeva velocità pensò alla strana domanda che gli aveva fatto l’uomo: chissà perché il padre dei mostriciattoli avrebbe voluto che fosse sceso con loro, a quella fermata. Mah, bella domanda… ma dopo un po’ non ci pensò più.
La coppia si sedette proprio sulle stesse poltrone della famigliola di prima. Si percepiva che erano felici assieme e che nulla poteva turbare quell’equilibrio.
L’uomo, qualche volta, lanciava uno sguardo a Marco, forse per controllare che non stesse guardando la sua ragazza, o forse semplicemente perché era così felice che la sua gioia esondava da lui e su chi gli era vicino. Questo Marco non lo sapeva.
Aveva avuto una ragazza tanto tempo fa ed era stato felice con lei, ma poi lei volle qualcosa di più: un impegno nella loro vita di coppia. Non le andava più bene la loro vita da adolescenti a trent’anni e lui aveva detto di no. Figurarsi, poi magari avrebbe preteso anche un figlio da lui. Il suo cuore era un castello a cui il ponte levatoio non sarebbe mai stato calato al di là del fossato. E quindi l’aveva lasciata, ma la colpa era sua: voleva l’impossibile.
Marco percepì che il treno stava rallentando e proprio in quel momento la ragazza gli si rivolse:
«Scende anche qui?» chiese con quel visetto perfetto.
«No, proseguo ancora, grazie.»
Quando il treno riprese, Marco si chiese perché ce l’avessero con lui e volessero che scendesse sempre alla loro stazione. «La gente oggi è proprio strana», si disse.
Guardò fuori dal finestrino e vide che non era salito nessuno a quella fermata. «Strano», pensò. «Ma meglio così: avrò tutto per me lo scompartimento del treno e non dovrò rispondere a domande stupide o tenere a bada dei mocciosi.»
Aveva appena tirato un respiro di sollievo e si era ravviato i capelli per l’ennesima volta quando la porta dello scompartimento si aprì lentamente: un vecchio era sulla soglia.
«Posso sedere?» chiese.
«Prego, si accomodi», rispose Marco, illuminandosi di un sorriso.
Marco cominciò a osservarlo: i suoi occhi brillavano di serenità e il viso mostrava una calma che lui non vedeva più da decenni in giro. Forse solo un’altra figura a lui cara aveva mostrato un tale atteggiamento: suo nonno. Il vecchio si sedette di fronte e cominciò a raccontare la sua vita.
«Ho avuto tempo di fare le cose con calma,» disse il vecchio. «Ho amato, ho lavorato senza correre, ho imparato ad accettare i miei limiti. Ho conosciuto la gioia e la tristezza, ma non ho rimpianti.»
Marco lo ascoltava, non sapendo cosa dire. In completo imbarazzo, non faceva che annuire. Ma, a mano a mano che il vecchio si inoltrava nel racconto della sua vita, scese su di lui, per simbiosi, una specie di pace: era come quando, da bambino, suo nonno gli raccontava storie.
Il vecchio chiuse il racconto con un sorriso, si alzò e stava per scendere dal treno:
«Allora scendi con me, stavolta?»
«Come scusi?» Non poteva credere alle sue orecchie.
Il vecchio lo guardò fisso per un istante che parve a Marco durare un’eternità.
Il treno ripartì.
Marco guardò di nuovo fuori dal finestrino e non vide nessuno. Poi uscì nel corridoio per sincerarsi che non vi fossero altre sorprese, ma non c’era nessuno. Ah, ora sì che poteva dare un respiro profondo. Ma aspetta un attimo, c’era qualcosa che non lo convinceva. Uno strano silenzio nell’aria. Guardò nello scompartimento accanto al suo: non c’era nessuno. Poi in quello ancora e ancora: possibile che tutto un vagone viaggiasse privo di passeggeri?
Corse alla porta di comunicazione tra i vagoni, ma anche quello successivo era vuoto.
Stava correndo a perdifiato per tutto il treno e stava arrivando alla locomotiva: non era possibile.
Era fuori di sé e quasi fece cadere il capotreno.
«Oh, mi scusi», disse.
«Di nulla, signore», rispose il capotreno.
«Dove siamo?» chiese Marco, rosso per la corsa e con un filo di voce.
«È l’ultima stazione, signore.»
«Milano… meno male, siamo arrivati!» disse Marco, riacquistando la baldanza di prima.
Il capotreno sospirò e iniziò il suo discorso con calma e profondità:
«No, c’è un errore, signore. Non siamo a Milano, ma all’ultima stazione.»
«In che senso ultima stazione?»
«Nel senso che è il capolinea. La fine di tutto. IlMondoFinisceQua, signore.» Questa volta aveva pronunciato “signore” con un’accentuazione e un tono più marcato.
«Senta, prima di tutto non mi chiami più signore e poi mi spieghi dove siamo, ok?»
L’uomo lo guardò con un misto di rassegnazione e compatimento:
«Vede sign… la posso chiamare Marco?» chiese.
«Sì, sì, va bene… continui.»
«Vede Marco, la prima fermata era la famiglia felice. Avrebbe potuto scendere lì e vivere l’amore semplice, la gioia quotidiana. Ma la sua fame di ambizione l’ha spinta oltre. Ha scelto un futuro possibile invece della luce del reale.»
«La seconda fermata era la coppia serena. Avrebbe potuto condividere una vita tranquilla, apprezzare ciò che già era pieno e bello. Ma il suo egocentrismo le ha fatto ignorare la quiete della felicità altrui.»
«La terza fermata era la vecchiaia, senza rimpianti. Avrebbe potuto fermarsi e accettare la pace del tempo, vivere senza correre. Ma ha continuato a inseguire desideri sempre più grandi.»
«E così è arrivato qui,» concluse il capotreno. «L’ultima stazione: non c’è più nulla da scegliere. La vita non è avere tutto, chiede solo di saper riconoscere ciò che vale davvero. Ogni fermata era una possibilità.»
Marco rimase in silenzio, guardando fuori dal finestrino. Poi abbassò lo sguardo sul suo orologio da polso: segnava ancora le nove del mattino. Non si era più mosso da quando era salito sul treno.
E non vedeva nulla. Perché non c’era nulla da vedere.
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Davvero interessante. Come spendere il tempo della nostra esistenza é una tema importante che induce alla riflessione. Scelte non facili, molto spesso, e prive di verità assolute. Il rovescio della medaglia é inevitabile. Le famigliole felici sono tali, quasi sempre, finché dura. Le corse per la carriera, o la libertà unita alla solitudine, sono altre scelte discutibili ma…
Grazie del commento;)