Incomprensione

Sapevo che quella strada non avrebbe portato nulla di buono. Con i miei l’avevamo studiata a fondo: mille punti dove attaccare, imboscate, trappole. Ma bisognava passare di lì; a nulla era servito preparare una relazione dettagliata al comando superiore per metterli in guardia. Forse c’erano interessi che noi, o almeno io, non conoscevamo. E poi era successo: una colonna del Complesso Bravo c’era finita dentro con tutti i piedi. Era andata ancora bene, solo tre vittime e una decina malmessi al Field Hospital americano. Avevano fatto in tempo a chiamare il supporto aereo per fortuna.

Ma ora bisognava risolvere il pasticcio, farli uscire dal villaggio dove si nascondevano e dal quale erano protetti. Protetti per modo di dire: i locali erano obbligati con la forza se volevano sopravvivere. Così molto studio e attenzione: avevamo vivisezionato la vallata, ogni buco, ogni spuntone, ogni anfratto. Avevamo avvicinato con discrezione le “autorità” locali, i vecchi, i capifamiglia. Avevano paura, chiaro. Parlare con noi poteva significare la loro morte, perciò adottammo ogni precauzione. Inscenammo commedie, come quando fingemmo di evacuare un bambino gravemente malato e portammo con noi uno dei vecchi per farlo incontrare col Comandante di Brigata.

Era stata una preparazione estenuante, ma verso la fine di quell’estate, poco prima delle torrenziali piogge, era giunto il momento di chiudere la rete e portarci a casa quella cellula che metteva in crisi il fronte nord della Coalizione. Oggi pomeriggio l’ultimo scherzetto: una compagnia dell’esercito locale avrebbe partecipato all’azione. Provai a dire che non era possibile: avevamo meno di quarantotto ore per integrarli nel dispositivo del Gruppo Tattico. Niente da fare: volontà politica, ordine dalle capitali.

Chiamai i comandanti di complesso minore spiegando che dovevamo rivedere il piano, c’erano anche i nostri “amici” e bisognava adeguare il tutto. Decidemmo di schierarli sul passo a est del villaggio, via obbligata se qualcuno avesse tentato la fuga, anche se tatticamente era la meno indicata perché quasi impraticabile. Facemmo venire il loro capitano e, con interpreti, carte topografiche e soprattutto sassi e pezzi di legno sulla sabbia, spiegammo il piano, facendocelo ripetere per sicurezza. Loro avrebbero dovuto bloccare l’uscita est e impedire al nemico di aggirarci alle spalle. Tutto chiaro? Speriamo.

Ci siamo quasi. L’intelligence non ha dubbi: stanotte saranno tutti al villaggio per una loro celebrazione. Meglio, forse la guardia sarà più bassa. Il piano è semplice: Bravo cinturerà il villaggio a nord e sud, mentre Alfa, con le Forze Speciali, entrerà e cercherà di bloccarli limitando l’uso della forza. Avremo il supporto di uno squadrone di elicotteri da combattimento e il complesso locale presidierà l’ingresso est.

Si parte. Io, con radiofonisti, nucleo di protezione e interpreti, mi muovo alle spalle di Alfa. Siamo tesi: per quanto preparati, non sappiamo cosa troveremo. Quella è la loro terra; noi, estranei, non capiremo mai davvero l’ambiente che ci circonda. L’interprete è con me, un bravo ragazzo: non parla italiano ma l’inglese è buono, sarà la mia voce con il comandante del complesso Charlie, come chiamiamo i nostri alleati. Era impossibile trovare interpreti di lingua italiana e locale, così passiamo per l’inglese, lingua franca del mondo.

Il comandante di Alfa, poco lontano, fa l’ultimo briefing coi tenenti: controllate armi, giubbotti, visori. Il tenente delle Forze Speciali sembra annoiato, ha l’aria di quello duro, sicuro di sé, ma so che anche lui ha lo stomaco annodato dalla paura.

Ci siamo. Il comandante di Bravo comunica che i plotoni sono in posizione, gli elicotteri con motore acceso pronti a muovere in cinque minuti, Charlie — assicura l’interprete — anche lui in posizione. Bene. Premo il pulsante di trasmissione e do al comandante di Alfa l’ordine di inizio movimento. Le squadre si muovono come serpenti nel buio più assoluto, mentre dal villaggio arrivano risate e canti.

Poi cominciano le conferme: ingresso nei vari edifici, abitanti ignari e terrorizzati. All’improvviso il mondo esplode, e con lui l’aria stessa. Raffiche di Kalashnikov tagliano la notte accompagnate da urla disumane. Le comunicazioni di Alfa impazziscono. Ci stavano aspettando. “Uomo a terra! Supporto aereo, presto!”

Il mio interprete si aggrappa alla mia spalla e urla: “Many people running towards Charlie! Charlie ask for orders!” Gente che corre verso di loro, vogliono sapere cosa fare. Io sono alla radio con Alfa che mi aggiorna sul disastro: abbiamo già perdite. L’interprete mi tira la manica: “Sir, they ask for orders!” Mi volto e urlo: “Tell them to wait!” E lui riferisce.

Intanto Bravo entra nel villaggio, gli elicotteri illuminano a giorno la valle. Le cose sembrano calmarsi. Poi, sulla frequenza radio integrata con gli elicotteri, una voce urla: “Colonnello, qui sotto è l’inferno! I militari locali stanno massacrando civili in fuga! Non hanno visori notturni, non capiscono a chi sparano! È una strage!”

Cado in ginocchio. La testa mi gira, un conato di vomito. Chiamo l’interprete: “What did you tell them, by God?” Lui mi fissa con occhi nerissimi, la pelle olivastra sbiancata, non so se per la luce artificiale o per la consapevolezza che lo invade. “I told them TO FIGHT, sir, as you told me.”

Mi sento cadere in un baratro senza fine. Non so se lo sussurrai o solo lo pensai:

“No, I told them TO WAIT…”

Avete messo Mi Piace1 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Un equivoco che costa vite umane, un fuoco “amico” che non risparmia nessuno. Credo sia capitato tantissime volte… vite umane, non “danni collaterali”. Come sempre l’uso della forza è distruttivo e non creativo, quindi, per come l’hai narrato (molto bene) e per come l’ho inteso io, lo considero un racconto antimilitarista. Grazie Pierpaolo.

    1. Ciao Giuseppe, grazie per le belle parole. No, direi che non è antimilitarista, è solo realista in quanto in determinati contesti nulla è così chiaro e semplice come l’informazione vorrebbe farlo passare.