
Io volevo solo essere un bambino
Khaled è ancora sotto la casa.
Ma la casa non c’è più.
C’è solo un buco. E ci sanguina dentro.
Io non dormo più. Da quella notte.
Una volta avevamo le tende con i disegni sopra. Una bicicletta con la ruota storta. Un gallo che cantava sempre in ritardo. Un fratello che mi faceva i dispetti. Odore di pane la mattina. E la voce di mamma che chiamava piano: “Sveglia, amore mio”.
Ridevo spesso. Forte. Nessuno mi diceva: “Fai piano”. Avevamo una radio rotta che papà accendeva lo stesso. Diceva che faceva compagnia. Avevo un cuscino con sopra le stelle. Mamma diceva che mi proteggevano. Una volta ho pianto perché avevo rubato una caramella. Non volevo diventare cattivo. E penso che sia tutta colpa mia.
Ora c’è fumo. Polvere. Urla. C’è fuoco anche dove non ci sono fiamme. Le pareti sono diventate aria. E l’aria, adesso, fa male.
Avevo sette anni. Ora non lo so più. Qui il tempo si rompe, come i vetri. Ogni notte dura un secolo. Ogni giorno è fame.
La mattina ci alziamo solo se il silenzio resta più di dieci minuti. Mamma guarda fuori con un bicchiere vuoto in mano. Lo tiene come se fosse pieno. Ci lava con l’acqua che sa di fumo. Poi prega. Sempre sottovoce. Io conto i passi per arrivare al secchio. Sono ventisette. Oggi erano ventiquattro. Tre mancano. C’è una fossa. Dentro c’è una scarpa sola.
Khaled dormiva accanto a me. Sempre. La notte della bomba l’ho chiamato. Tre volte. Ma non mi ha risposto. Mi sono svegliato sotto le pietre. Lui era sotto ancora più giù. Papà l’ha trovato. Ha detto che era lui. Ma non tutto era rimasto con lui. Avevo ancora il suo sangue nei capelli. Mamma me li ha tagliati. Ora ho freddo anche quando c’è il sole.
Ho trovato una foto di Khaled, dove mi faceva le orecchie con le dita. L’ho piegata in quattro e l’ho nascosta sotto una pietra vicino al muro rotto. Così se domani sparisco anch’io, qualcuno saprà che c’eravamo.
Ho visto un bambino senza testa. L’ho visto. Ho visto la testa. Sembrava dormisse. Ma non dormiva. Poi qualcuno gli ha messo un lenzuolo. Sua madre gli baciava i piedi. E malediceva. Malediceva. Malediceva.
Ho visto un papà tenere in braccio la figlia bruciata. Diceva che era viva. Ma non lo era. La cullava. Cantava piano. Come se potesse farla tornare.
Ho visto la schiena di mio cugino aperta come un libro. Una bomba l’ha preso mentre correva a cercare il pane. Gli mancavano le scarpe. La gente correva. Ma lui no. Lui era fermo. Col viso nella sabbia. Aveva solo dodici anni.
Ho visto un uomo raccogliere dita da terra. E metterle in una scatola di biscotti. Come se potesse ricomporre qualcuno.
Ho visto bambini in fila con le pentole in mano. Sembravano grandi, ma avevano la paura nei gesti. Spingevano. Si graffiavano. Uno si è versato il riso addosso. Gli è finito sul petto, bollente. Urlava, ma non mollava la pentola. Dentro c’era il cibo per i suoi fratelli. Si è bruciato tutto. Ma ha stretto ancora più forte.
Papà dice che Dio ci vede. Ma se ci vede… perché non fa niente?
Io a volte chiudo gli occhi e lo prego. Gli parlo piano, come se potesse sentirmi. Come prima. Come sempre.
Gli chiedo di non farli morire, perché se succede qualcosa a me, voglio che ci siano loro: a baciarmi i piedi, se sono rotto, a cantarmi una ninna nanna, piano piano, a raccogliere le mie dita e metterle al sicuro, a rimettermi le scarpe, se le perdo mentre corro. A non lasciarmi solo. Nemmeno quando non mi muovo più.
Io ho fame. Sempre. Ma non lo dico. Perché se lo dico, mia madre si spezza. E io non voglio romperla.
Quando arriva il buio, comincia il silenzio. Ma non è un silenzio vero. È un silenzio che aspetta il rumore. Quel rumore. Il rombo. La scossa. L’aria che esplode.
Io, nel buio, mi stringo a mia madre. Lei mi abbraccia. Ma io tremo. Perché so che se il tetto cade, non c’è abbraccio che mi salvi.
Una volta ho sognato che ci salvavano. Eravamo su un camion, con tanti altri bambini. Ridevamo. Avevamo il pane in mano.
Poi ho visto Dio, in mezzo a noi. Aveva la voce di mia madre e gli occhi stanchi di papà.
Gli ho chiesto: ‘C’è anche Khaled, là?’ E lui ha detto: ‘C’è tutto quello che non hai avuto.’
Allora mi sono svegliato. Perché i sogni belli fanno più male di quelli brutti. Ed io non voglio più sognare.
Ogni notte penso: «Chi resta domani?» A volte chiedo a mamma: «Noi, domani, ci saremo ancora?» Lei non risponde. Mi accarezza.
Io voglio solo giocare. Voglio una stanza. Un pallone. Un letto. Voglio fare la pipì in un bagno vero, non in un secchio. Voglio l’acqua. Quella fresca. Che non puzza. Voglio un giorno senza urla. Solo uno. Voglio dormire senza saltare quando cade un’altra bomba. Voglio dormire senza stringere i denti.
Io voglio Khaled. Voglio papà. Voglio le tende coi disegni. Voglio mia madre che ride. Non quella che piange piano e crede che non me ne accorga.
Se domani muoio, voglio che sappiate questo: non ho lanciato pietre. Non ho urlato. Non ho fatto del male. Ho solo guardato. E ho pianto. In silenzio.
Quando Dio mi chiederà chi ero, non gli parlerò della guerra. Gli dirò:
“Ero quello che aveva pianto per una caramella rubata. Perché non voleva diventare cattivo.”
Poi gli chiederò piano:
“È per quella caramella che adesso è tutto così?”
E se non risponde, gli urlerò:
“Io volevo solo essere un bambino.
E voi non mi avete lasciato il tempo.”
Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
La guerra è una cosa spaventosa, il messaggio è arrivato fortissimo, una serie di immagini che hai saputo descrivere con crudezza, senza mezze misure, attraverso il grido di un bambino a cui è stata negata la bellezza dell’ infanzia. Mi ha smosso!
Straziante e scritto terribilmente bene. Dietro le immagini che vediamo in tv c’è un’infinità di storie come questa e raccontarle è un modo per educare alla pace. Un gesto piccolo, eppure potente, proprio come le parole che hai scelto e le immagini che hai evocato.
Grazie di cuore per le tue parole. Hai colto esattamente ciò che speravo arrivasse: dietro le immagini ci sono vite, volti, dettagli che fanno male proprio perché sono veri. Raccontare queste storie, per me, è un bisogno, ma anche un gesto di resistenza. Piccolo, sì, ma necessario. E soprattutto, lo faccio perché voglio sentirmi ancora umano. Se anche solo una persona si ferma a sentire davvero, allora forse la scrittura ha ancora un senso.
Un abbraccio,
Lino
È un testo che colpisce per la crudezza e l’inusitata lucidità di un bambino a cui l’infanzia è negata; arriva forte la rabbia nell’ interrogativo: perché? Una domanda rivolta a chi quel dramma non lo vive e pure finge di non conoscerne la ragione. Ma per ogni guerra che arde sul pianeta, qualcuno fa soldi a palate o rafforza il suo potere e di questo sistema, più o meno consapevolmente, facciamo parte tutti, il che dovrebbe farci riflettere. Grazie per la lettura
Hai centrato il punto: quella domanda, perché?, è il grido di chi non ha più nulla e si vede strappare anche l’infanzia, mentre il mondo guarda altrove. Hai ragione, dietro ogni guerra c’è un meccanismo che arricchisce qualcuno e annienta molti, e in un modo o nell’altro ne siamo parte. Raccontare, per me, è un modo per non accettarlo in silenzio.
Grazie a te, per aver letto davvero.
Ciao Lino, prima di tutto grazie per questo racconto. Non so come hai fatto a scriverlo in modo così sentito da essere toccante quanto il vissuto di un bambino che osserva con i suoi occhi, parla con la sua voce, la sua ingenuità e sofferenza.
Siamo tutti molti presi dai nostri piccoli o importanti problemi quotidiani: “ognuno a rincorrere i suoi guai”, come dice Vasco Rossi. Vediamo le immagini delle guerre in tv e distogliamo lo sguardo, oppure riflettiamo un attimo e poi cerchiamo di distrarci. Abbiamo bisogno di rilassarci e ne abbiamo il diritto. Ognuno di noi, adulti e bambini vorrebbe essere felice, trascorrere una vita, quanto piú possibile serena. E non ci sono parole, anzi sono io che non le trovo, per definire l’orrore della guerra che uccide gli innocenti, gli inermi i tanti che vorrebbero solo una caramella o il pane quotidiano e piú sorrisi e meno lacrime di dolore.
Scrivere un racconto come “Io volevo solo essere un bambino”, con la sensibilità che hai saputo esprimere, non é da tutti. Mi ha commosso e aiutato a ridimensionare i pensieri che avevo per la testa.
Grazie ancora.
Ciao M. Luisa, le tue parole mi hanno colpito profondamente, e ti ringrazio. Scrivere, a volte, mi serve per non scoppiare. È l’unico modo che ho per tenere insieme quello che sento. Ma stavolta no. Questo racconto non mi ha liberato, mi ha intrappolato. Mi sento impotente. E questa cosa mi fa rabbia, tanta rabbia. Quando mi vengono gli occhi lucidi, non mi commuovo: mi incazzo. Con me stesso. Perché so che non posso fare nulla. E non riesco ad accettarlo. E se mi distraggo, poi ci ritorno. E mi sento pure vigliacco. Speravo in un commento, lo ammetto. Per non sentirmi più così solo. E per questo ti sono grato. E ora scusami, se in tutto questo posso sembrarti patetico. È come mi sento. È solo la mia verità. E mi fa male.
Ti mando un abbraccio sincero,
Lino