
Joachim
Il teatro era pieno di gente quella sera, ogni sedia era presa, ogni posto esaurito e l’aria si faceva via via più pesante, densa dei respiri di tutta quella gente in attesa di vederlo, di ascoltare la sua musica, di sentire quel rapimento di cui avevano letto sui giornali, di cui avevano raccontato le donne e i mariti, spettatori in altri teatri.
La tensione sospesa nell’aria, appoggiata alle sedie, era respiro infuocato di una bestia in attesa: il suo pubblico. Solo, nel camerino, con gli occhi chiusi, Lui rimaneva per un po’ in silenzio ad ascoltarlo: respiro, umanità corrotta, odore acido dei corpi, dei vestiti, puzza stantia dei camerini, tutto si creava uno spazio nella sua mente, tutto saliva come in un altissimo vortice d’immagini, brandelli delle sensazioni, dei pensieri che si disponevano senza preciso ordine.
E ad ogni nuovo rumore, tocco, odore, si formava un brandello di vortice che salendo raggiungeva miliardi di altre schegge.
Così il tempo passava in un attesa che diventava insopportabile per il pubblico là fuori, e i musicisti, come ogni volta, imprecavano in silenzio e maledivano il loro maestro.
Poi, quando sembrava persa ogni speranza di sentire il concerto, la porta del camerino si apriva, e passi decisi risuonavano nelle vuote stanze su su fino al grande palco a raggiungere l’applauso.
La bestia si è animata, ha sollevato la testa e ora lo guarda, in attesa dell’estasi; Lui risponde a quello sguardo, posa i suoi occhi su ogni volto, su ogni bocca, sulle mani delicate delle donne che si sporgono dai palchetti. Chiusi nei cuori i loro pensieri vagano nell’infinito apparire degli sguardi su di Lui.
Sono felici? Sono così felici che si riesce solo ad odiarli.
“È sempre stata una farsa: io qui che fingevo di stupirvi e voi illusi a commuovervi per qualche nota ben interpretata. Cosa ne sapete voi di ciò che può esprimere la Musica? Qual è mai stato il vostro sacrificio per comprenderla? Voi non siete nulla: non resterete che polvere su quelle sedie. Eppure sento che devo dare vita per una volta ancora a questa farsa. Perché senza di voi io non sono niente. Perché la mia vita vale oggi solo per quello che so suonare. Vi odio, ed è un odio senza più limiti, senza più pudori”.
Silenzio, la musica ha inizio.
Il primo movimento fu come l’aprirsi di una ferita, un taglio lento, acuto, sulle carni di un bimbo: l’intera orchestra procedeva piano, ogni nota una ferita, ogni frase un taglio.
Si poteva vedere, era come vedere quello che c’era dentro di lui: il dolore, la forza di un lento precipitare da una montagna di ghiaccio, sensazione di freddo… e una grande infelicità.
Nei suoi movimenti l’orchestra era il suo esercito, una forza, nelle sue mani l’esplodere della rabbia, di un odio incomprensibile, e una grande forza, irresistibile.
Quando il ritmo aumentava era come scivolare giù, senza scampo, giù, senza appigli, senza speranza, giù in una corsa pazza verso l’abisso. La velocità cresceva e tutto correva: il continuo colpo d’arco dei violoncelli diventava pioggia, acqua implacabile; l’acuto dei violini e i timpani, un cuore impazzito verso la voragine oscura, senza limiti. Era come poter vedere tutto questo. I musicisti, impazziti per star dietro a quelle note, dentro quella voragine precipitavano come credenti in una cerimonia sacra, strumenti a loro volta di un demone violento, che li gettava nel vento, nell’esaltazione di una musica senza respiro, e ogni colpo d’arco era come una vita che si spegneva, ogni cambio d’arcata qualcosa che si staccava e si faceva polvere nell’abisso. Alla gente, immobile sulle poltrone, catturate dal demone che in Lui si manifestava, appariva così un mistero svelato, un segreto, un sigillo che veniva distrutto. L’emozione pulsando sembrava scoppiare, ma non si poteva smettere, non si poteva andare via. Nessuno più riusciva a sottrarsi a quella Musica che incatenava e feriva l’animo aprendo le carni del cuore.
Perché poi quando tutto diventava calmo, dolce, delicato, sembrava incredibile, come svegliarsi da un’allucinazione, come un demone redento che vede Dio. Impossibile. Impossibile ancora, suoni di una bellezza incontrastabile, ora riflessi di ghiaccio diventati fuoco caldo e pieno, ora coccole dolci, note lente, sussurrate, giurate, raffinate, essenze di emozioni, i violini … Come un perdono.
L’ultima nota saliva insieme alla sua mano le cui dita si aprivano lentamente a scoprire il palmo rivolto all’orchestra, come a dire, fermi, basta.
Dopo di lui il silenzio. L’immobilità del silenzio, la chiarezza del silenzio.
Erano pochi istanti, ma a tutti, sempre, parevano durare tanto, per l’eternità. Come se avesse il potere di controllarli tutti, la sua mano si abbassava lenta, e solo quando era calata del tutto, uomini e donne scioglievano se stessi nell’applauso che cadeva come frutto maturo.
Voltando le spalle, lui rimaneva immobile ancora qualche istante, madido di sudore: respiro nervoso e il cuore che faticava a rallentare la sua corsa.
Con gli occhi chiusi, appariva di nuovo il vortice, e altri brandelli salivano insieme in miliardi di schegge.
Quando il vortice era salito così in alto da non poterlo più seguire, lui si girava in un inchino profondo e aprendo gli occhi per l’ultima volta li guardava. Con odio.
E a tutti, sempre, non sfuggiva mai quello sguardo pieno di rabbia, di rancore, quell’odio che restava sospeso negli applausi, nei gesti.
Prima che il clamore finisse, lui scompariva di nuovo nei camerini, per non salire più.
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“Si poteva vedere, era come vedere quello che c’era dentro di lui: il dolore, la forza di un lento precipitare da una montagna di ghiaccio, sensazione di freddo… e una grande infelicità.”
Se penso a cosa mi ha più colpita del tuo racconto, scelgo questa semplice frase. Penso a quanta infelicità ci voglia nell’animo per dare vita allo spunto creativo, come una scintilla. L’animo inquieto genera, quello sereno si assopisce. Molto bravo
Ciao, il tuo è un racconto davvero coinvolgente, l’ho immaginato con estrema vividezza dall’inizio alla fine. Grazie