
La camera bianca
Serie: Considerazioni disilluse di uno scrittore dimenticato
- Episodio 1: Alla vigilia della cerimonia. L’incubo del discorso
- Episodio 2: La camera bianca
- Episodio 3: La camera nera
- Episodio 4: Marcus e Greta
- Episodio 5: Il pavone nero
- Episodio 6: La ruota panoramica
- Episodio 7: Prima intervista
- Episodio 8: Il carcere purpureo
- Episodio 9: Il racconto di Greta: “Il tordo”
- Episodio 10: La costellazione dell’Ofiuco
STAGIONE 1
Per ogni mio progetto avrei desiderato tracciare le ombre dei suoi primi passi e progressi, sia inerenti alla gestazione del manoscritto, quindi alla sua fase più intima e incantatoria, che ai riscontri traumatici con il mondo esterno, con i primi rifiuti, vacillamenti e dissensi, prima che ciascun tassello si armonizzasse a dovere per darmi in qualche modo l’illusione di una mia voce. Ho conservato alcuni stralci di programma, che poi, chissà perché, ho improvvisamente interrotto.
La camera bianca
Non posso parlare della mia prima pubblicazione, “La camera nera”, senza includere gli sforzi profusi per il mio primo lavoro creativo, “La camera bianca” rimasto tuttora incompiuto, forse perché gli toccava, o per il solo fatto di essere il primo tra tutti quelli esistenti e pubblicati, nonostante dentro di me “La camera bianca” nascondesse molto di più, soprattutto il mistero del suo incompimento, non essendo mai stato completato e pubblicato. Il fatto che ancora non mi spiego è che a distanza di tantissimi anni il suo contenuto e le sue risonanze ancora mi tormentano, come accadeva con i bagliori delle prime idee che lo riguardavano, prima ancora che diventassero parole. Il lavoro che sentivo di più, che sentivo più vero e più mio, è quello che ha perduto, rispetto a tutti gli altri che avvertivo ugualmente miei, ma non così a fondo come “La camera bianca”.
Trovo che vi sia stato sempre qualcosa, un fattore imperscrutabile, che ha orientato verso la luce “La camera nera”, inabissando nella totale oscurità “La camera bianca”. All’epoca, quando avevo davanti a me i miei primi lavori – il bianco rifiutato e il nero accolto e conteso da diverse realtà editoriali, nonché riviste di prestigio che volevano incorporarlo in una determinata costituzione seriale –, cercavo di spiegarmi che cosa davvero non fosse andato nel primo, il bianco, e cosa avesse funzionato invece nel secondo, il nero – che poi risulta essere il primo lavoro accolto e pubblicato, frutto della mia stessa immaginazione. Non vedevo delle enormi differenze. “La camera bianca” è un libro che ho cominciato a scrivere all’età di quattordici anni, e che ha accompagnato fino alla metà dei miei sedici tutto il fuoco e il disordine di quel periodo, che la scrittura ritraeva con il massimo ardore possibile, rappresentando una sorta di carta moschicida delle mie pulsioni. “La camera nera”, l’avevo cominciato negli ultimi mesi dei miei quattordici anni e si era sviluppato in modo parallelo, rispetto a “La camera bianca”. Una sorta di milza accessoria, che cresceva e si sviluppava nello schiacciamento dell’altro, in una sua singolare quanto incontrollabile ipertrofia, come accade ad alcuni gemelli.
All’inizio non avevo idea di cosa fosse un romanzo e come si decretasse, oltre all’individuazione dell’ortodossia formale, anche il suo valore tecnico e poi letterario. Non avendo idea di cosa rendesse davvero valido un romanzo, non mi restava che abbandonarmi alle sue tenebre, per vedere alla fine cosa sarebbe accaduto.
“La camera bianca” mi stava trascinando lontano, oltre le mie previsioni, in un luogo pericoloso. Avevo cominciato a scriverlo un primo pomeriggio di una domenica di novembre, di ritorno dal reparto di psichiatria dove avevano ricoverato una mia zia di nome Clorinda, un nome che per molti era considerato singolare, antiquato, ma non per me, che vi scorgevo attraverso una sua luce insulare e sconosciuta. Era una zia giovane e anche molto dolce, che quando ero piccolo mi raccontava diverse storie di sua invenzione, divertendosi a registrare la mia voce su di un vecchio apparato a bobine Geloso, dove nel riascolto stentavo a riconoscermi, quando raccontavo delle storie inventate o a volte variate dai frammenti che lei mi narrava, o quando canticchiavo qualche canzoncina per grandi, quasi mai per bambini. Avevo una buona voce e un ottimo orecchio, mi diceva lei, anche quando cominciava a tremare e a piangere senza una ragione, quando eravamo nel meglio dei nostri pomeriggi di risate e registrazioni. In quei momenti misteriosi, cambiavo espressione e provavo una grande paura, non sapendo cosa la portasse a cambiare così repentinamente il suo stato d’animo, non solo il suo sguardo, ma anche il suo aspetto, il suo candore, la sua voce, pensando potessi averle fatto qualcosa di male, senza volerlo, naturalmente, per portarla a diventare una persona completamente diversa da come la ricordavo e da sempre la riconoscevo.
Quando diventai un po’ più grande e mi spiegarono che la zia Clorinda non sarebbe più stata la stessa persona di una volta, e che non avrei più potuto giocare con il suo registratore a bobine Geloso insieme a lei, e nemmeno impegnarmi in tante straordinarie attività a cui mi aveva introdotto con la sua amorevolezza – come l’impasto dei biscotti a forma di lettere, o la composizione difficilissima del puzzle di uno splendido castello della Loira (ricordo perfettamente che si trattava del Castello di Chenonceaux, detto Il castello delle dame, con la sua mirabile facciata bianca riflessa sull’acqua) – cominciai a soffrirne, progettando i primi capitoli de “La camera bianca” e immaginando la sua nuova vita in una delle camere del castello. Credo di essermi sentito al centro di quella dimensione di pura catastrofe, che rappresentava l’esperienza dello scrivere nella palingenesi del suo dolore, fin dai primi attimi di contatto con quelle pagine.
E da quel momento, ho scoperto la mia solitudine attraverso quella della zia Clorinda e nello stesso tempo attraverso l’esercizio della sua immaginazione. Non sapevo in quei momenti, durante la stesura dei primi frammenti de “La camera bianca”, che mi stavo occupando della sua solitudine e della mia immaginazione. Pensavo di fare i conti con la malattia misteriosa della zia Clorinda e con il fatto che me ne sentissi responsabile. Forse per il fatto che mi amasse così tanto, oltre ogni grado di vastità e di illusione, che non ho mai più incontrato.
Quando la vidi in reparto, mi resi conto di non esistere nei suoi occhi. E anche lei, nei miei, non esisteva più. Ma non avrei mai inserito una simile dissertazione all’interno del mio discorso di premiazione. Avrebbe devastato completamente l’ atmosfera. È stato meglio averla utilizzata in altra sede, come all’interno dei primi capitoli del romanzo “La camera bianca”, restato a vagare nell’immensità dell’oblio.
Serie: Considerazioni disilluse di uno scrittore dimenticato
- Episodio 1: Alla vigilia della cerimonia. L’incubo del discorso
- Episodio 2: La camera bianca
- Episodio 3: La camera nera
- Episodio 4: Marcus e Greta
- Episodio 5: Il pavone nero
- Episodio 6: La ruota panoramica
- Episodio 7: Prima intervista
- Episodio 8: Il carcere purpureo
- Episodio 9: Il racconto di Greta: “Il tordo”
- Episodio 10: La costellazione dell’Ofiuco
“Non sapevo in quei momenti, durante la stesura dei primi frammenti de “La camera bianca”, che mi stavo occupando della sua solitudine e della mia immaginazione.”
Mi sono fatta un’idea mia che certamente muterà con il proseguo della lettura. Colpita dall’immagine dei gemelli, ho sentito ‘La camera bianca’ quasi essere l’espressione del lato artistico dell’autore, del suo animo, dolori pulsioni, slanci. Diversamente, ‘La camera nera’ potrebbe essere la sua parte razionale. Tuttavia, perché piace di più? Forse perché spaventa meno? La digressione del resoconto del rapporto fra il giovane e la zia, mi incuriosisce. Certamente, ho ben presente che le mie sono supposizioni fatte su una storia che tu hai già scritto. Quindi, ciò che mi resta da fare è proseguire la lettura.
In fondo l’impostazione di questa serie nasce con un’idea di mutamento, di variabili continue e inattese. Mi piacerebbe creare un labirinto di situazioni e di inquadrature che alla fine rivelino un ordine dal caos, una definizione dagli strati di nebbia. Il tuo commento è una riprova di quanto la presenza delle due camere, con i loro singolari contrasti, possono contribuire alla realizzazione del labirinto, come rapporto profondo con la lingua dello scrittore in oggetto, quindi con le luci e le ombre che si fondono e dove i suoi contrasti e le sue pulsioni ritrovano delle misteriose residenze, a volte clandestine, in altre certificate, ma sempre legate a qualcosa che lo precede e che lui non controlla del tutto. I gradi di consapevolezza di ciò che rappresentano i simboli ricorrenti della storia, sono esattamente gli stessi per lo scrittore dimenticato, per la voce che ne interiorizza i pensieri e lo narra, per me che lo scrivo, per te che lo leggi: ciascuna delle parti in gioco è allineata, e a volte alienata, nella stessa visione oscura se non parziale delle cose, delle dimensioni, delle voci. Abbiamo, al momento, solo parvenze di verità, vibrazioni, traslucenze, le stesse che si riattivano nei processi di memoria, quando il ricordo si fa immagine, ma un’immagine che continua una sua vita autonoma, divincolandosi dalla dittatura del non stato, del compiuto e quindi dell’ignoto che ci offre di continuo la parola. Potrebbe trattarsi della stessa dimensione del processo creativo di scrittura, dove, almeno nel mio caso, gli eventi che si succedono e che si interrogano nella loro ondata, non sono definiti da una determinata traiettoria o economia funzionale, e anche se interessati da una minima pianificazione, rispondono sempre alle leggi del loro magma, che sono ignote allo scrittore personaggio, come alla persona che compie l’atto della trascrizione/trasfigurazione di un impulso che non ha una foce predefinita, ma solo il getto cieco della corrente. La scoperta del viaggio, e dei suoi pericoli, all’interno della serie, è prendere confidenza con questi mutamenti doppi e sovversivi, con questo continuo rischio di essere traditi da ciò che si credeva giusto e che si amava di più, per accorgersi che vi è sempre quello snodo, quella strada, quella possibilità non ancora battuta, dove il fiuto della storia sente di andare e dove tu devi condurla, o forse devi farti condurre, senza opporre ragioni o resistenze. Non si tratta di un processo cognitivo, ma di un atto ancora più interno, dove il segno è già destino prima che tu rifletta sulle ragioni di una indeterminata scelta. Ecco cosa si nasconde dentro i contrasti delle due camere, sia per lo scrittore scritto che per me, che rimaniamo vittime dello stesso arcano incantatore. Grazie per avermi consentito queste misteriose riflessioni.
E grazie a te per averle condivise. Esse forse chiariscono, forse incuriosiscono e affascinano.
“Non avendo idea di cosa rendesse davvero valido un romanzo, non mi restava che abbandonarmi alle sue tenebre, per vedere alla fine cosa sarebbe accaduto”. Sai, proprio ieri pensavo a questo: come si scrive un buon libro? E la risposta che mi sono data è che tutte le regole, bisognerebbe impararle prima e tenerle da parte, come in un magazzino. Poi, quando arriva il momento di tirare tutto fuori, come una valanga, si può aprire la porta del magazzino e prendere ciò che ci serve. Ma in quei momenti, quando si scrive, credo che la cosa importante sia proprio lasciarsi andare e vedere poi cosa succede. Mi hanno incuriosito molto quelle due opere: camera bianca e camera nera. Continuo a seguirti con piacere🌿
È vero. Sono dell’idea che non vi sia mai una certezza assoluta, quel particolare risultato che puoi trovare capovolto, alla fine del libro, che ti confermi l’esito dell’equazione. In fondo, come è successo a questa singolare tipologia di scrittore dimenticato e disilluso, l’atto creativo con tutto il suo processo itinerante, nonostante si organizzino e si collaudano nei singoli dettagli tutti i dispositivi e gli apparati per cui funzioni, quanto meno si mantenga stabile e rigoglioso in un suo equilibrio, non riserva delle garanzie, ma spesso degli abbagli, dei lampi di intuizione, che possono avvicinarti o allontanarti da quella che era la tua idea di partenza, la tua ispirazione o sensazione, che spesso è suscettibile di tante variazioni, quante ne saranno quelle di chi incontrerà per la prima volta l’opera in questione. Non credo, e in realtà lo spero, che non esistano formule magiche per certificare la riuscita di un proprio progetto, né l’aderenza a un determinato standard. Io mi accorgo subito quando le frequenze di un lettore percepiscano ciò che sta accadendo o che si accaduto in un riscontro. Di solito accadono delle sfumature sottili, che mi fanno capire che è accaduto un incontro vero attraverso il proprio immaginario. Quando si rimane fermi alla superficie, alla normativa spicciola, alla regola grammaticale, senza contestualizzare, né conoscere, la voce e l’arcata poetica di chi scrive, in quel caso non esistono metodi o strategie per conquistare ed è meglio lasciar perdere. Si sorride, si ringrazia e si rinuncia. O prendere o lasciare, così come mi accade quando incontro nuove opere, nuovi scrittori. Deve accadere qualcosa di imprevisto, in cui mi riconosca e che sento già mia, come se scritta unicamente per me. Immagino che alla fine, questo materiale onirico, psichico e spesso confuso che cerchiamo disperatamente di allineare nel migliore dei modi, con tutti gli strumenti disponibili, e la consapevolezza progressiva dei nostri limiti o dei bagliori illusori di qualche valore, debba favorire un incontro magnetico, fatto di cose invisibili, che non si studiano e non si spiegano, ma che alla fine ti raccontano per qualcosa che nemmeno tu sai di te. Quando questo accade anche a una sola persona, allora il rischio di questa impresa avrà avuto un suo senso. Un saluto e un grazie per la tua attenzione e il tuo commento. A presto e una buona giornata.
Davvero interessante questa nascita parallela delle due opere.
Mi ha molto colpito il motivo che ha portato alla nascita de La Camera Bianca.
Sì, dietro la Camera Bianca vi è il cuore della sua ricerca, della sua ispirazione, da cui emergono le origini dell’affettività e del dolore che si fanno voce.
““La camera nera”, l’avevo cominciato negli ultimi mesi dei miei quattordici anni e si era sviluppato in modo parallelo, rispetto a “La camera bianca”. Una sorta di milza accessoria, che cresceva e si sviluppava nello schiacciamento dell’altro”
Ciao Luigi. Posso tirare in ballo Jung?Come ha già commentato Dea, l’Ombra è la parte fondamentale di questo racconto, così come la forza con cui emerge. E insieme emergono ricordi di molto tempo fa. Proseguirò di sicuro nella lettura di futuri episodi.
Ciao, Antonio. La tua interpretazione apre davvero un mondo ed è assolutamente pertinente al contesto. Sono felice che si colgano più strati in questi miei piccoli nastri introspettivi, che cercherò di lavorare e concentrare in cerchi sempre più ristretti, vedendo dove mi porteranno questi chiaroscuri dell’animo e del mistero del narrare, che è sempre parte primordiale di un’ ombra. Un grazie sentito.
Davvero profonda e toccante questa “genesi” del romanzo e dello scrittore. Le due camere, nera e bianca, mi hanno ricordato la legge dell’ombra. Mi ha colpito come sia stata la nera vedere la luce, mentre il suo opposto resta incompiuto. Invisibile. Eppure il peso, il segno dell’eredita’ che ti ha lasciato, lo percepiamo eccome.
“Credo di essermi sentito al centro di quella dimensione di pura catastrofe, che rappresentava l’esperienza dello scrivere nella palingenesi del suo dolore, fin dai primi attimi di contatto con quelle pagine. “
Bellissima
Ciao, Dea. I tuoi commenti mi confortano non poco e sono come sempre pertinenti e toccanti. Devo dirti che mi hanno tolto il dubbio che questa prima dorsale di considerazioni potesse confondersi con un delirio di invasamento o di natura celebrativa sul ruolo dello scrittore, quale in fondo non è. È un intarsio tra più livelli di realtà che si alternano, seguendo un flusso biografico immaginifico ma forgiato da una voce narrante che non è la stessa di chi scrive, o forse solo per alcuni aspetti e riflessi che non svelerò, naturalmente. Il fatto che tu lo abbia colto in pieno, mi dà uno stimolo a continuare su questa linea. Ancora un grande grazie per la tua generosità e attenzione.