La città di Maria

Lucia aveva lasciato il lavoro all’età di cinquant’anni, per assistere suo padre. Difficile dire se l’avesse spinta il sentimento di amore-odio che nutriva per lui, o se l’avesse fatto soltanto per zittire la sua rigorosa coscienza ipercritica. Non avrebbe detto mai a nessuno che suo padre era stato un tipo affettuoso, protettivo e incoraggiante. Era l’esatto contrario: un genitore eccessivamente severo, rigido, autoritario e completamente anaffettivo. Però, non poteva negare che a lui doveva la vita, l’istruzione e un buon lavoro, per averla mandata a scuola, a costo di grossi sacrifici e di rinunce. Aveva lavorato in una miniera, in un’impresa edile e in tante aziende agricole, spaccandosi la schiena fino all’età di sessant’anni. E poi, ormai, era diventato vecchio e fragile; suscitava compassione.

A casa, in chiesa e a scuola le avevano insegnato un principio sacrosanto, il quarto comandamento: onora il padre e la madre. Nessuno le aveva spiegato che fosse giusto avere stima anche di se stessa. Aveva vissuto nel conflitto interiore perenne.

Quando frequentava le superiori, sognava di andare a Padova, all’università. Sua madre le aveva promesso mari e monti con fiumi di parole al vento, per distoglierla da quell’idea. Suo padre avrebbe voluto che diventasse un bravo medico, per poterlo curare, soprattutto in vecchiaia. Lucia aveva rifiutato, ancora una volta, ciò che il padre cercava di imporle, senza tener conto di quali fossero i suoi desideri, le aspirazioni di un’adolescente con la testa piena di sogni e fantasie. Nonostante il suo carattere un po’ ribelle, non era andata molto lontano dalla volontà espressa dal padre.

Inizialmente aveva concluso un corso triennale di formazione professionale post diploma e aveva iniziato a svolgere un ruolo che, in quel periodo, veniva incluso nella categoria dei paramedici. Molto tempo dopo, con vent’anni di lavoro alle spalle, per adeguarsi alle normative vigenti, aveva conseguito il titolo accademico alla facoltà di medicina. Laurea breve, triennale: dottoressa di serie B.

Suo padre, ormai anziano, aveva dimenticato quasi subito quel giorno particolare in cui aveva assistito, dalle prime file dell’aula magna, all’incoronazione di Lucia, con una ghirlanda di alloro, bacche rosse e peperoncino. In seguito aveva scordato che tipo di lavoro facesse sua figlia e, a distanza di pochi anni, c’erano giorni in cui non ricordava neppure il suo nome. La chiamava Luda, come la badante che lo assisteva durante la notte e per alcune ore della mattina. Certe volte, quando non riusciva a trovare uno dei tre fazzoletti che aveva nelle tasche della giacca di lana, chiamava Bonaria, in preda al panico, con un tono disperato. Bonaria era il nome di sua moglie, madre di Lucia, morta da più di vent’anni. I fazzoletti, qualche volta cadevano sul pavimento e finivano sotto la poltrona. Uno dei problemi che lo mettevano in agitazione, era l’incapacità di trovare o distinguere quale fosse il fazzoletto di stoffa per il naso, il pezzo di scottex per sputare e il fazzolettino di carta per asciugarsi le lacrime dell’occhio “guasto”. Un danno irreversibile, provocato da un noto professore, dopo cinque interventi per rimuovere la cataratta con il laser, che, alla fine, aveva provocato un distacco della retina. Solo dopo l’ennesima visita di controllo Lucia aveva notato che l’esimio professore, primario della famosa clinica “Gioia Mia”, rinominata “Oja Mommìa”; manifestava un lieve tremore alla mano destra. Il professore di microchirurgia oftalmica, ormai settantenne, che non voleva deporre lo scettro, forse aveva un principio del Morbo di Parkinson.

L’idea di inserire il padre ottantenne, ormai vedovo, in una struttura, Lucia l’aveva scartata sin dal primo periodo in cui era calato il grado di lucidità e di autonomia di quell’uomo ancora un po’ tiranno, che aveva sempre cercato di educarla, incutendole paura. Non c’era stato alcun ripensamento, sulla decisione di assisterlo senza allontanarlo dalla sua casa, fino all’ultimo giorno di vita, nonostante i sacrifici e le rinunce che comportava, sentendosi in dovere di restituire ciò che aveva ricevuto. Erano soprattutto i momenti di impazienza, di alterazione istintiva della sua voce contro un vecchio inerme, che creavano in lei uno stato di malessere, soprattutto per il senso di colpa. Il problema si era risolto quando le protesi acustiche avevano smesso di funzionare. Da molto tempo le sopportava malvolentieri; spesso le toglieva e finiva per schiacciarle sotto i piedi. La sordità del padre aveva permesso a Lucia di lamentarsi ad alta voce, senza farsi sentire e senza dover implodere ogni volta che lui si impuntava, tenacemente oppositivo o poco collaborante. Quando dovevano sollevarlo dalla poltrona, pretendeva il massimo aiuto. Se fingevano di aiutarlo, per evitare che i muscoli si atrofizzassero completamente, allora, senza rendersi conto, si sollevava con il sostegno di un mignolo. Avrebbe funzionato anche con l’ausilio di un grissino.

Un uomo così rigido, abitudinario e morbosamente attaccato alla sua casa e alle sue cose, si sarebbe sentito totalmente disorientato e non sarebbe sopravissuto a lungo, se gli avessero stravolto la solita routine quotidiana.

Era giunto così a compiere novantanove anni e nove mesi (sempre sotto lo stesso tetto), vedovo, sordo, ipovedente e rimbambito. Non aveva raggiunto i cento anni per un banale incidente domestico.

Lucia era uscita di casa alla solita ora, per fare la spesa. Luda, dopo aver lavato il pavimento, che profumava sempre di lavanda, era andata a vuotare il secchio, come sempre. Lui sonnecchiava in poltrona, davanti alla stufa, come ogni giorno. L’unica cosa capace di attirare il suo sguardo da sveglio era la fiamma visibile attraverso il vetro della stufa. Era un elemento confortante, quasi ipnotico, che lo scaldava e lo rassicurava. Avrebbe preferito vederla accesa sin dai primi giorni di settembre, quando la temperatura esterna oscillava ancora tra i 30 e i 35 gradi.

Quel giorno di fine ottobre, all’improvviso, c’era stato un blackout. La stufa si era bloccata e la fiamma si era spenta. Dopo alcuni anni di costante immobilità, che per tirarlo su aspettava che fossero in due, (una a destra e una a sinistra), aveva deciso di alzarsi da solo; forse con l’intenzione di accendere la stufa. Aveva scivolato sul pavimento bagnato e anche la sua vita non vita, era scivolata via, come reclamava nei momenti saltuari di lucidità.

La catena alla caviglia che teneva Lucia ancorata alla casa del padre, si era rotta. Dalla semi reclusione alla libertà si era aperto un vuoto, una voragine di inutilità. Non più turni alienanti, con un padre che non sentiva, non capiva e la considerava come nient’altro che una badante straniera. Non più cucinare, fare la spesa e correre da una parte all’altra, per paura di fare tardi.

Nelle sue giornate, spesso troppo piene di impegno fisico e mentale, all’improvviso si era aperto un vortice che risucchiava ogni proposito di scuotersi per fare qualcosa di buono, di produttivo; per dare un senso alla sua vita e andare avanti. Si sentiva come se la morte avesse investito anche lei, come uno tsunami. La sua volontà, le sue emozioni, le sue idee, la sua forza fisica, erano precipitate nel mare buio e denso del lutto.

La casa paterna, spesso surriscaldata e trafficata da Luda, dall’infermiera, dai vicini di casa e dalle visite dei parenti, appariva di colpo vuota, fredda e muta.

Persino il frigorifero, solitamente strapieno di alimenti light per lei (perennemente a dieta); per lui che mangiava come un uccello implume, e per Luda, alta, bella e robusta che mangiava per tre, era pulito e vuoto. Luda era una donna super efficiente: prima di lasciare la casa aveva tirato a lucido ogni cosa. Dopo aver fatto le pulizie “pasquali” a ottobre, aveva preparato la valigia. I suoi vecchi l’aspettavano a Mariupol. La sua città, la città di Maria, completamente distrutta.

Dopo una lunga tregua e un evento inaspettato – come un miracolo – che aveva posto fine all’assedio; finalmente la ricostruzione.

C’era bisogno di tutto e di tutti: uomini e donne di buona volontà, disposti a dare una mano.

Lucia era salita di corsa fino alla mansarda. Di colpo si sentiva di nuovo agile e pimpante, mentre saliva le scale. Aveva preso i due trolley più grandi, uno per sé e uno per tutte le scorte delle cose meno ingombranti e più necessarie.

In meno di un’ora anche lei era pronta, per partire insieme a Luda. Pronta per camminare sulle macerie e affrontare il disastro provocato dalla guerra. Pronta per dare una mano.

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Discussioni

  1. I tuoi racconti hanno una voce che mi raggiunge nel profondo. Mi parlano di esperienze a me vicine, esternando emozioni e sensazioni difficili da mettere completamente su carta: come se facessero parte di un vissuto comune. Una persona a me cara ha vissuto una situazione simile e l’ho ritrovata in ogni riga del tuo racconto. Per ultimo, non ha fatto la valigia per andare in Ucraina ma ha venduto casa e si è stabilita vicino a dove abito. Rimane comunque una cicatrice profonda, il non sapere che fare della “libertà” una volta conquistata. Le farò leggere il tuo racconto, nella speranza che sia dia un po’ di animo e comprenda che la vita è ancora di fronte a lei e non solo alle spalle.

  2. Questo racconto mi ha commosso tanto. Ci sono vari elementi importanti. A partire dal rapporto con i nostri genitori che diventano anziani e hanno bisogno di noi, passando per il forte bisogno che ciascuno ha di sentirsi utile, fino ad arrivare all’attualità di una guerra che ci stimola a cambiare vita. La scrittura, come sempre, è scorrevole e piacevole. Le parole scelte alla perfezione. Grazie Maria Luisa per questo “scorcio” di vita.

    1. Grazie a te Cristiana, per la lettura e la condivisione delle mie piccole storie, che traggono spunto dalla realta` intorno a noi e dal microcosmo interiore del mio vissuto. Sento nelle tue parole uno spirito femminile, empatico e solidale. La generosita` delle parole che mi regalate con i vostri commenti sono come pilastri virtuali, un forte sostegno per scrivere ancora. Leggendovi, o scambiando sensazioni e punti di vista, si apre un mondo nuovo pieno di fantasia, di ricordi, o di ironia, che ci conforta; nonostante tutto cio` che accade, di orribile, intorno a noi. Un abbraccio.🙏

  3. Una storia davvero triste. O bella! Tra le letture correlate “Una storia triste” è il titolo di un’altra triste storia ma la tua è una storia triste nella storia triste: alla triste storia personale si affianca la triste storia di una guerra che al momento sembrava senza storia ma che si protrae ancora, senza intravederne una fine. Un bel racconto struggente e malinconico da far perdere ogni speranza. Per fortuna la voglia di ricominciare è piu forte, e la vita rinasce. Ora per tirarmi su di morale vado a scrivere qualcosa di più leggero, anzi leggerissimo. Ottimo lavoro M.Luisa.

    1. Meno male che Fabius c’e`! Possiamo dire. Fabius P. che ci strappa sorrisi anche quando abbiamo il magone, e magari ci viene da piangere vedendo certe immagini che circolano in rete, come quella del bambino profugo aggrappato allo scoglio, mentre qualcuno sta trascinando il gommone in riva.
      Grazie per la leggerenza che ci regali, senza essere mai banale. E grazie per quest’ ultimo generoso commento.

  4. Ciao Maria Luisa, non può non piacermi questo tuo racconto. Come gli altri, un velo di malinconica tristezza coperta dall’ironia ci sono sempre, e riesci a farci calare perfettamente nella psicologia e nelle emozioni dei personaggi. Ma il finale di speranza è il vero gioiello di questo racconto. Dal titolo e dalla copertina mi aspettavo “l’entrata in scena” della guerra in Ucraina e più leggevo più mi domandavo quando sarebbe arrivata. Sembra quasi che la protagonista con la vita segnata dal rapporto conflittuale con il padre sia stata fin da subito destinata all’incontro con Luda e che la sua missione sia quella di andare a Mariupol. Chissà, magari sono io che voglio vedere troppo in un racconto. Una cosa è certa, i miei complimenti. A presto!

    1. Grazie Carlo, le tue parole sono preziose. Hai una spiccata capacita` di cogliere – nelle storie – anche il non detto. Ti sono grata, non solo per i commenti lusinghieri, ma anche per gli stimoli che mi fornisci con i tuoi libriCK. In questo caso mi hai dato un ottimo spunto con la parola RICOSTRUZIONE, che avevi usato nel finale del tuo ultimo racconto. Era da alcune settimane che sentivo il bisogno di scrivere un’ altra storia col pensiero rivolto a chi, in questo momento, sta decisamente peggio di noi. Mi hai fornito la spinta giusta. Nel mese in cui la maggior parte di noi festeggera` il Natale, ho voluto lanciare anch’ io, nel mio piccolo, un messaggio di speranza, che sia di buon auspicio per la rinascita del popolo ucraino, o almeno per una tregua. I pensieri positivi. (come quelli negativi), hanno una forma di energia: piu` ce n’e`, meglio e`. Un abbraccio.😉