La convocazione

Serie: Mio figlio si è picchiato con Andrea


"Maschi contro femmine! Maschi contro femmine!"

(Giovedì 14 ottobre, h 15.42.)

Sulla porta sprangata si sentivano i colpi, battuti a mano aperta, palmo contro legno, un incontenibile applauso a scena aperta.

Spinsi Davide dietro di me, mentre mi guardavo intorno alla disperata ricerca di un’arma qualunque, che mi permettesse di difendere le nostre vite.

“Papà…”

“Tranquillo, piccolo. Non aver paura. Ce la caveremo.”

“Voglio mamma…”

Certo. Tu sì, che hai capito al volo chi è l’eroe di questa storia!

Colpi, colpi su colpi.

In quante mai erano, adesso? Cosa diavolo stavano facendo?

Avevo una visione onirica di megere radunate via chat, pronte per inaugurare un orrido banchetto a base delle nostre carni…

Fino a un paio d’ore prima, avrei riso della mia sbrigliata fantasia.

Adesso no.

Non mi andava più così tanto, di ridacchiare.

Mi tremavano le ginocchia, perdevo sangue da un sopracciglio spaccato, ed ero d’accordo con Davide.

Nel senso che anch’io volevo la mamma.

Come cavolo eravamo riusciti a ficcarci dentro un casino del genere?

(Lo stesso giorno, alcune ore prima.)

Avevo ricevuto la telefonata della Preside mentre portavo fuori il cane. Chanel era un grosso cane pigro. L’avevamo da quasi sette mesi, ma non aveva l’aria di chi è riconoscente per essere stato salvato dal canile.

Ogni volta che agitavo il guinzaglio, nell’infantile convinzione che avremmo condiviso la felicità della passeggiata, mi guardava come se fossi impazzito.

Dovevo chinarmi, agganciare il guinzaglio al collare, strattonarlo un po’; a quel punto, di solito capiva che non avrei ceduto, e si sollevava sulle zampe massicce, per poi seguirmi a testa bassa giù per le scale, l’espressione di chi va al mattatoio. Una volta fuori, sbrigava la faccenda senza alcun entusiasmo, quindi si voltava verso casa, dando ad intendere che la sua quota di collaborazione era esaurita.

Stavamo risalendo per le scale, quando il mio cellulare si mise a squillare.

“Signor Roccamondi, buongiorno. Sono la Preside Riario. Avrei bisogno che venisse a scuola, abbiamo avuto qualche problema con Davide…”

Per un momento, persi il fiato.

“Sta bene?”

Mi tremavano le ginocchia. Una reazione orrendamente poco virile, lo so. Ma Francesca era fuori città per lavoro, io e Davide eravamo soli… Se gli fosse successo qualcosa di brutto…

“Stia tranquillo: sta bene, a parte un occhio nero.”

“Un… occhio nero?”

“Sì, esatto. La faccenda però è grave, dobbiamo vederci per discuterne.”

Mi venne quasi da ridere per il sollievo. Grave? Un occhio nero? Ma in che mondo abitava, questa qui?

La mia idea di grave prevedeva almeno la sedia a rotelle!

“Signor Roccamondi?”

“Sì, certo, capisco… Una rissa, mio Dio! Ma come gli sarà venuto in mente!”

“Appunto. Quando può raggiungermi?”

Valutai accuratamente la situazione.

“In effetti, al momento avrei un po’ da fare… Sa, mia moglie è fuori città per lavoro… Magari ci mettiamo d’accordo…”

“Non credo che lei capisca. Anch’io ho parecchio da fare, ma, come avrà notato, ho interrotto tutto quello che stavo facendo per mettermi in contatto con lei.”

Cazzo. Che figura di merda.

“Ok. Sì, certo. Cioè, mi dia una ventina di minuti e sono lì… Cos’è successo esattamente?”

“Da ciò che siamo riusciti a capire, Andrea ha detto a Davide che doveva stare zitto, probabilmente non la prima volta… Lui ha perso la testa e si sono azzuffati durante la ricreazione.”

“Oh.”

Ero stato molto attento a non lasciar trapelare nulla del divertimento che provavo. Per sembrare ancora più credibile, per l’intera telefonata mi concentrai ostinatamente sull’immagine della sedia a rotelle.

Non avevo nessuna intenzione di passare per un genitore poco collaborativo.

Si trattava, come avevo scoperto abbastanza di recente, di un tabù sociale unanimemente riconosciuto. Tipo il cannibalismo.

Quando un bel mattino di ottobre il tuo rampollo avesse scannato il vicino di casa per cento euro, beh: sarebbe stato da te che la polizia avrebbe bussato, per chiedere spiegazioni.

E se mai tu avessi osato, in preda allo shock, ammettere la verità, e cioè di non avere la minima idea di cosa passasse nella testa di tuo figlio (la stessa cosa che avrebbe dovuto riconoscere il tuo povero padre, meno di trent’anni prima), allora era quasi sicuro che i tabloid avrebbero titolato offrendoti al pubblico ludibrio.

Inefficienza. Negligenza. Disattenzione.

I giovani non erano più quelli di una volta, e la colpa era di noi genitori. Entrambi, si capisce; ma i padri di più.

Se sono rimasti in zona, ovvio.

Magari è per questo che scappano in tanti.

Ma non voglio mica giustificarli, eh, sia chiaro. Lungi da me!

Solo, ogni tanto me lo chiedo: quale sarebbe, poi, ‘sta gioventù che il grande pubblico sembra rimpiangere tanto?

I nostri nonni? Manganelli e teste rotte?

O magari i nostri padri? Eh, quelli sì, che sapevano come si spara in faccia ad un avversario politico!

Mica come ‘sta deboscia, che ammazzano la nonna per cent’euro…

By the way, quando riagganciai ero abbastanza convinto di avere fatto la figura del padre responsabile. Casomai Davide avesse massacrato un coetaneo a sediate, a quindici anni da oggi, non sarebbe stato perché io avevo mostrato di aver sottovalutato la sua prima rissa alle scuole elementari.

Mentre mi gustavo a pieni polmoni il traffico delle dieci del mattino, mi sentivo in realtà abbastanza confuso.

Il mio tenero rampollo era un bambino leggero, spugnoso e morbido come una bigbabol alla fragola. Francesca lo definiva sensibile. A me venivano in mente ben altri aggettivi; sta di fatto che questo Andrea doveva essere un bel rompicoglioni.

Chissà da quanto lo torturava, per farlo esplodere a quel modo!

Sorridendo al traffico, mi ritrovai ad immaginare di portare Davide a casa, sedermi con lui al tavolo in cucina e farci una bella chiacchierata da uomo a uomo.

O era meglio un giretto in macchina?

Il succo sarebbe stato il seguente: la violenza non è mai (ripeto: MAI!) la soluzione. Se però non puoi proprio evitarla, beh, allora fai in modo di non essere quello che resta sotto!

Mi ci vedevo benissimo: gli avrei strizzato l’occhio, e Davide mi avrebbe sorriso timidamente, come certe volte era capitato che facesse. Una vera goduria modello Robinson.

Intesi, ragazzo? Certo, pa’.

Di Davide si era sempre occupata soprattutto Francesca. A lei piace da matti, io invece sono un po’ pigro, e poi farei confusione con i mille impegni, la scuola, il doposcuola, il calcetto, l’oratorio…

Ai nostri tempi, si giocava con chi abitava nel tuo stesso cortile, gli amici non te li sceglievi mica, li trovavi già in loco – come le piante a innesto nel cemento, con quel po’ di terriccio intorno, e le radici a vista…

Spesso il tuo migliore amico rispondeva all’ammirabile profilo di “abita sul mio pianerottolo, e i miei conoscono i suoi.”

Non capivo secondo quali regole creassero i loro improbabili sodalizi, al giorno d’oggi.

I gusti comuni? Si hanno davvero gusti imprescindibili, a quell’età?

Io non ricordo nulla del genere.

A farla breve, speravo fosse l’occasione per un nuovo sfolgorante inizio, con quel mio pulcino tanto fragile.

Il quale, in grande ritardo sulla mia personale tabella delle aspettative paterne, si era affacciato sul mondo dei maschi appena in tempo per farsi fare un occhio nero da Andrea.

Dunque, Andrea: benvenuto nella mia lista dei ringraziamenti!

Stavo ancora sorridendo, quando intravidi un tailleur con dentro una donna, in piedi in cima alle scale d’ingresso della scuola.

La Preside mi aspettava fuori.

Somigliava così tanto alla signorina Rottermeyer di Heidi che faticai a non scoppiare a ridere, mentre le stringevo la mano.

“Mi segua, si accomodi, signor Roccamondi. La questione è assai grave.”

Aveva un ineccepibile senso della responsabilità, nessun dubbio su questo. Personalmente avrei preferito un po’ di tette, ma ok.

Andiamo, signor Roccamondi.

E, come direbbe Francesca: per carità, non facciamoci riconoscere!

Serie: Mio figlio si è picchiato con Andrea


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Discussioni

  1. Il racconto ha un tono fresco, ironico e profondamente umano, che riesce a catturare l’attenzione del lettore fin dalle prime righe. L’alternanza tra momenti di tensione e riflessioni ironiche crea un ritmo dinamico e coinvolgente.

  2. Ai miei tempi, la scuola elementare era paura e delirio! L’istituto dei salesiani che frequentavo perché “a due passi da casa”, letteralmente, era un vero incubo! Un bambinetto dai capelli biondi con i suoi due guardaspalle, avevano strizzato a morte un passerotto che il maestro mi aveva affidato per darlo a mio padre (allevatore di canarini), mi avevano riempito di sberle insieme ad altri tre compagnetti così per passatempo e ogni volta che li vedevo a distanza, ero diventato un vero ninja che svanisce lanciando un fumogeno o mimetizzandosi contro la parete con un telo.
    Però non ho mai detto niente a nessuno, sapevo solo che era meglio stare all’erta… e niente si sopravviveva. Quei tre poi erano stati anche mandati via dalla scuola per aver rotto un braccio ad altro ragazzino che non conoscevo.
    Il tuo racconto l’ho trovato delizioso! E le reazioni del padre di Davide sarebbero praticamente le mie stesse identiche, compresa quella di associare l’istitutrice di Heidi con la preside trattenendomi a stento dallo scoppiare in una risata sciocca e infantile.
    Sara ti voglio bene. ♥

  3. “Ai nostri tempi, si giocava con chi abitava nel tuo stesso cortile, gli amici non te li sceglievi mica, li trovavi già in loco”
    Un concetto veramente bello e tanto vero, cui non avevo mai pensato

    1. sì, me ne sono accorta in questi giorni, abitando dove abitavo da bambina, ora che tutte quelle persone, proprio come me, non abitano più qui. avevo l’istinto di suonare i campanelli per chiedere se scendevano a giocare….

  4. “quale sarebbe, poi, ‘sta gioventù che il grande pubblico sembra rimpiangere tanto?”
    Il grande mito del “noi sì che eravamo diversi (nel senso di migliori)”. Anche i Romani dicevano la stessa cosa rimpiangendo i tempi antichi della Repubblica. Ci dovremmo tutti evolvere da questa retorica e il tuo personaggio è sulla buona strada!❤️

  5. Ah, le belle cinghiate di una volta, vero? Quella sì che era educazione! Qualcuno la pensa ancora così. 🙁
    Promettente inizio, da padre mi ci ritrovo pienamente. Si diceva tra noi che giocavano a pallone nel cortile: “se quando hai ragione devi venire alle mani fallo, tanto hai ragione”.
    Anche Gandhi non era del tutto contrario… Mi sembra 🙂

    1. brutti momenti, eh? passo un sacco di tempo a consolare padri terrorizzati dalla presunta violenza dei loro pargoli. di solito dico loro che alcuni padri ne sarebbero stati fieri. tipo Priamo, Peleo… ogni civiltà ha i suoi tabù.

      1. Nel caso specifico stavano giocando ed il ragazzo agguantato aveva spiegato che mio figlio era inciampato, caselli addosso. Erano amici per la pelle e mio figlio non picchiava nessuno. Peraltro, dopo cinque anni di jujitsu, non sarebbe stato quello il suo modo di fare male…
        Ma tant’è…

        1. sisi, la stessa cosa che ha detto peleo a priamo: “ma va là, che stavano giocando! cosa c’entra achille, se quel cretino di tuo figlio ettore è rimasto incastrato nelle stanghe del carrettino, neh!” XDXDXD

  6. “Una volta fuori, sbrigava la faccenda senza alcun entusiasmo, quindi si voltava verso casa, dando ad intendere che la sua quota di collaborazione era esaurita.”
    Già lo amo Chanel