La domenica dei cani 

Successe un giorno, all’improvviso, che tutti i cani del paese sparissero. Non si era ancora udito il canto del gallo del signor Marzouki e già non c’era più traccia di nessuno di loro. Le cuccette erano vuote, così come le casette di legno e gli angoli dei cortili e dei recinti. Nessun rumore e nessuna traccia di tutti i cani del paese. Un vecchio, il signor Romeo Gutierrez detto Il Pazzo (il quale aveva l’abitudine di parlare con le formiche, poiché sosteneva che esse gli dicessero come coltivare i campi di riso nel modo più proficuo), aveva giurato di avere visto una piccola fila di cani, grossi o piccini, dall’aspetto temibile o docile, sporchi o freschi di taglio, partire per la strada battuta che portava all’uscita del paese. Il tutto era successo ben prima dell’alba, molto prima che quel vecchio gallo si svegliasse e mettesse in allarme i poveri paesani che si erano ritrovati improvvisamente senza più il fedele amico a quattro zampe che li aspettasse per la colazione o per andare a lavorare nei campi. Alle otto del mattino il fatto ormai era noto a tutti e lo scompiglio generale che ne seguì fu atroce: tra ipotesi, bestemmie e pianti, la situazione degenerò ben presto e così il sindaco del paese, tale Vincenzo Sierra, si trovò costretto a scrivere una lettera all’Associazione dei Cani della Nazione, lamentandosi di come la dipartita di Loretta, Sebastiàn o qualsivoglia Fido che fosse, avesse causato un danno irreparabile non solo dal punto di vista lavorativo (chi le guardava ora le pecore? chi faceva la guardia ai pollai per evitare gli attacchi delle faine?), ma anche dal punto di vista affettivo. Erano già due le famiglie che vivevano la sparizione dei loro animali come un lutto. “Se entro un giorno i cani non saranno tornati, prenderemo provvedimenti contro di loro, quali il ripudio o un rimborso per i danni”, firmò così quel pover’uomo, di malavoglia mentre fumava il suo sigaro e pensando al perché non avesse mai voluto un cane: i gatti sono molto meglio. 

La risposta che seguì a tale lettera formale fu molto esilarante. 

“Non accettiamo intimidazioni o critiche: i cani del paese se ne sono andati perché stufi di essere considerati allo stesso livello delle serve e degli schiavi. Mai una coccola o mai del sano tempo speso insieme. Sempre trattati come gli ultimi degli ultimi o, ancora peggio, come giocattoli da abbellire per lo shampoo mensile dalla Signora Vargas. Non torneremo fino a che non imparerete la lezione, ora arrangiatevi.” La lettera venne resa pubblica nella piazzetta della chiesa il giorno della Domenica delle Palme di un anno sfortunato, evidentemente, dato che a quella situazione stramba e preoccupante si era aggiunta l’improvvisa scomparsa del Vescovo, avvelenato dalla sua stessa bile poco prima della funzione ecclesiastica. 

-Cosa potrà mai succedere ora? Questo è l’inizio della fine!- esclamarono i fedeli, privi della loro Santa Messa e anche, a dirla tutta, privi della fiducia nel futuro. Le famiglie si erano accolte e ognuno aveva fatto mea culpa: dalla famiglia Sierra, che amava tantissimo il loro cane tanto da cedergli il posto del figlio nel letto matrimoniale e a tavola, alla famiglia Beràt, non avvezzi alle carinerie o smancerie, ma che segretamente sentiva la mancanza di Elsa, il loro pastore maremmano sempre attento a guidare le pecore tra i campi, persino il signor Machado aveva ammesso che vedere la cuccia vuota del suo Ulisse lo aveva fatto sentire inadeguato, persino una brutta persona. “Chissà, forse non sono davvero stato in grado di volergli bene. Del resto, mi hanno abbandonato tutti, i miei figli compresi, ma Ulisse mi è sempre stato accanto, povera bestia, anche quando lo sgridavo perché mi ammazzava i polli, quei dannati polli”, pensò, con gli occhi lucidi all’ombra del patio della sua cascina. Era passata una settimana e il paese era già provato, spento, senza vita e senza motivo di avere una speranza. La signora Nana era passata a miglior vita e il signor Lucio si era ammalato di collera, i bambini non andavano più nelle risaie a pescare le rane e gli adulti restavano nei cortili, in attesa di un ritorno dei loro cari amici, che forse in fondo amici non erano, ma erano più figli o fratelli non dotati di parola. Del resto, non c’era più neanche quella piccola presenza nella vita di tutti i paesani, piccola ma che aveva fatto sempre, in realtà, la differenza. Un bacio, uno sguardo felice e pieno, una sagoma nei campi di grano, il fango nell’atrio del casale, le notti passate a dormire insieme e a proteggere i pollai, erano tutte le cose che mancavano anche nei cuori degli uomini più duri. 

Ma i cani non sanno essere rancorosi. Di fatto, il martedì della settimana successiva il gallo del signor Marzouki cantò all’alba tre volte e all’ingresso del paese tornarono Elsa, Achille e tutti i cani del paese, con sguardo fiero e amorevole, consapevoli di non essere stati apprezzati abbastanza, ma che in fondo non faceva così tanta differenza per loro, loro che potevano amare tranquillamente per due. Il giubilio fu immenso e le famiglie, rincuorate, si ripromisero di non fare più mancare nulla ai loro figlioli acquisiti e decisero di ergere una statua d’oro all’entrata del paese a forma di cane, per celebrare e ricordarsi del loro valore negli anni a venire. 

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