La favola dell’ammalato immaginario
…c’era una volta un uomo sano, intelligente cui non mancava niente.
Un giorno (forse era annoiato, forse era davvero preoccupato, chi lo sa?) si recò dal medico per qualche esame di routine. Il dottore gli diagnosticò una leggera carenza di ferro. “Basteranno degli integratori, non si preoccupi”.
L’uomo diligentemente comprò gli integratori e li assunse regolarmente, ma col passare dei giorni dedicò sempre maggior tempo a controllare il suo stato di salute: iniziò col misurarsi la pressione quotidianamente, poi si fece confezionare delle scarpe ortopediche, quindi si convinse di avere un calo della vista e prese degli occhiali da riposo.
Passato qualche mese tornò dal medico per un controllo e il dottore lo trovò invecchiato: le immotivate preoccupazioni avevano formato rughe sulla sua fronte, appariva smagrito e troppo, troppo irrequieto. Così gli prescrisse dei giorni liberi per rilassarsi mentre cercava di convincerlo che si trattava solo di stress. Ma ormai in quell’uomo la convinzione di essere cagionevole si era insinuata e come un verme aveva scavato un solco profondo fino al suo cervello e vi si era annidata. Ad ogni istante del giorno gli sussurrava che si sentiva stanco, che le gambe erano diventate pesanti, il respiro si faceva affannoso, le mani tremanti.
Nell’arco di pochi mesi si era trasformato in un malato cronico.
Amici e parenti che lo ascoltavano raccontare le proprie magagne s’impietosivano e cercavano di consolarlo. Solo uno di loro non partecipava: si chiedeva come fosse possibile cambiare tanto velocemente, cosi chiacchierò a fondo con lui e scopri come fossero andate le cose, Spaventato, cercò in tutti i modi di fargli aprire gli occhi: “Eh solo una tua convinzione, non è la realtà!”, ma quello non voleva saperne, quasi gli piacesse l’idea di essere grave.
Intanto amici e parenti continuavano ad andare a trovarlo per piangere con lui e più lo facevano, più lui si aggravava, più loro singhiozzavano: una lontana cugina arrivò a portargli un mazzo di fiori nella convinzione che la fine fosse imminente.
Ad un anno esatto dalla prima visita medica, l’uomo senti di essere ormai in punto di morte, Prese una vanga, tenne un commovente discorso di commiato alle persone li presenti e poi, con loro che lo seguivano in un lamentoso corteo, si diresse al camposanto dove iniziò a scavarsi la fossa.
Ora dopo ora la faceva più profonda e larga mentre amici e parenti lo guardavano tra le lacrime, dal bordo dello scavo. L’amico che invece sapeva la realtà delle cose andava dall’uno all’altro per farli smettere: “Perchè gli date ragione? E’ sano come un pesce!”, ma quelli lo insultarono dicendo che era un insensibile e lo cacciarono via.
Le ore passavano e l’uomo continuava a scavare, fermandosi solo per ricevere l condoglianze con aria compita e stoica.
Scavava. scavava: la fossa era più che perfetta: avrebbe potuto ospitare almeno due persone, ma lui ancora non si fermava. Parenti e amici iniziarono a domandargli per quanto ne avesse ancora, visto che ormai si stava facendo buio e loro dovevano tornare alle proprie case.
“Perchè non ti distendi e attendi la fine? E’ tardi ormai!”, ma lui con una scusa trovava il modo di proseguire.
La realtà era che ad ogni colpo di vanga si accorgeva di essere terrorizzato all’idea di morire e che in fondo lui stava benissimo; ma come dirlo ad amici e parenti che, come un pubblico, aveva pagato quella esibizione con lacrime e sospiri ed ora si aspettava d’avere in cambio il gran finale funebre? Forse l’amico avrebbe potuto aiutarlo, ma era stato allontanato e ora guardava tutto stando seduto su un ramo, troppo in alto perchè potesse sentirsi chiamare da una fossa profonda,
All’ennesimo tentativo di prendere tempo, amici e parenti persero la pazienza: “Insomma, muori una buona volta!”, sbuffarono in coro.
“Ma io sto bene: scavare mi ha rinvigorito! Non siete felici del mio ritorno alla vita?”, gridò lui di rimando.
Amici e parenti confabularono tra loro ed emisero la sentenza: “Povero caro, sei cosi debole da vaneggiare: credi di stare bene e invece sei già morto! Stenditi, concluderemo noi il lavoro per te.”
A quel punto, l’uomo capi che non l’avrebbero lasciato andare. Troppo a lungo li aveva coinvolti nella sua interpretazione di un malato, accettandone le attenzioni e le tenerezze . Cosi si distese supino sulla nuda terra da lui stesso spianata e lasciò che lo ricoprissero una zolla dopo l’altra, finche’ il respiro smise di avere possibilità d’accesso e di uscita, come tutto il resto del suo corpo. Amici e parenti piansero le ultime lacrime e se ne tornarono a casa, soddisfatti dell’aiuto che erano stati pronti a dare ad un uomo nell’ora del bisogno.
Anche l’amico scese dall’albero per andarsene . Si fermò un istante a fissare la terra smossa e poi se ne andò.
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Hai scritto e descritto un tema non facile, abbastanza comune a volte, difficile da curare e che spesso ammala chi è vicino al malato immaginario. Ho apprezzato come lo hai affrontato.
ti ringrazio molto! E’ vero, penso che alla fine sia uno dei modi che abbiamo per fuggire dalla realtà e ricevere attenzioni.
L’ipocondria è un male che si può sconfiggere solo con il desiderio di vivere: paradossalmente si vince al momento di guardare in faccia la morte “vera”. Peccato che in alcuni casi dopo essersi tatuati il ruolo del malato è difficile riuscire a scrollarselo di dosso. In un certo modo, direi che la tua favola richiama “Al lupo al lupo” in versione moderna.
quanto e’ vero! Il fatto che chi hai vicino ti appoggi acriticamente in questa scelta di ruolo poi, rischia di condannarti a vita in quel personaggio.
“La realtà era che ad ogni colpo di vanga si accorgeva di essere terrorizzato all’idea di morire”
Questo passaggio mi è piaciuto
Spesso diamo un’immagine di noi stessi talmente credibile (ma al tempo stesso lontana dalla realtà) che poi ci tocca portarla fino in fondo. Anche a nostre spese. Ed è quello che è accaduto al protagonista, nella sua favola/parabola di discesa verso gli inferi creati dalla sua mente
hai proprio ragione!