La giacca

La sua giacca aveva una cucitura profonda. Di un colore diverso: l’aveva comprata giusto per quello. Chi altri avrebbe accostato un filo arancione sul rosso della stoffa? Rischiando che il particolare nemmeno si vedesse? Un pazzo. Oppure un creativo. A lei quell’abbinamento piaceva. Amava ogni singolo cambiamento, nella precisa cromia delle cose.

Quella giacca rossa però, monotona perché tono su tono, che poco prima la ragazza al guardaroba le aveva restituito, non era la sua. Ne era sicura. Dovevano avergliela cambiata mentre guardava lo spettacolo. A teatro, si sa, accade di tutto. Eppure, il fatto che nelle tasche ci fosse ancora il suo pacchetto di fazzoletti di carta, intonso, e i biglietti dell’autobus col quale era venuta, aveva tratto in inganno. Ci aveva messo un po’ a realizzare. A trovare il coraggio di parlare.

«Signorina, questa non è la mia giacca», aveva detto.

La guardarobiera, una giovane alta e corpulenta, con un anellino dorato che luccicava al lobo destro, così minuto tanto da stonare con l’intera mole della sua figura, aveva fatto una faccia sbalordita. Con una malcelata insofferenza, aveva controllato il numero che le era stato dato. Se lo era portato quasi al naso, talmente forte doveva essere la sua miopia, e poi aveva annuito.

«Numero diciassette, signora. E io il cappotto corrispondente le ho dato. Nel suo caso la giacca. Quindi, a meno che lei non mi abbia consegnato un numero sbagliato, non possono esserci errori».

E con un ampio gesto della mano, quasi volesse scacciare una mosca, l’aveva invitata a togliersi di mezzo. A circolare, per non bloccare la fila.

Delusa, la donna si era rifugiata in un antro del teatro, accanto a un divano di pelle che era stato sistemato sopra a dei tappeti preziosi. Un lampadario di cristallo emanava il suo conico raggio di luce proprio sopra la giacca che, ancora nelle sue mani, veniva passata al setaccio da colei che di certo non ne era la proprietaria. Una cuspide “rivelatrice”, di quante differenze vi fossero.

L’odore non era il suo, per cominciare. La stoffa non era altrettanto morbida. Era fatta uguale, è vero. Dello stesso rosso carminio e pure il tessuto assomigliava, ma l’amata cucitura arancione, nel bel mezzo della schiena, era assente.

Attese con pazienza che la fila al guardaroba si esaurisse. Gli ultimi astanti stavano uscendo alle luci artificiali della strada. La notte incombeva: si era fatto tardi.

La ragazza al guardaroba stava riponendo con ordine i numeri che sarebbero serviti per lo spettacolo della sera seguente. Quando vide arrivare di nuovo lei, fece un’espressione che di certo non celava il suo fastidio.

«Cosa non va?», si limitò a chiedere, mentre avrebbe voluto aggiungere in lei, intendo, signora?

E di nuovo, la scena si ripetè. Quella non era la sua giacca.

Dopo un po’ che discutevano, le due attirarono l’attenzione di un uomo sulla cinquantina, calvo e dall’abbigliamento elegante. Doveva trattarsi del direttore del teatro, che si era scomodato a venire fin lì per controllare cosa stesse succedendo. La ragazza gli parlò con una reverenza che tradì soggezione nei suoi confronti ma, quando spiegò la causa del contendere, si lasciò scappare una versione che si potrebbe dare quando si ha a che fare con una persona che si compatisce.

«La signora qui, direttore – disse – continua ad affermare che la giacca che le ho consegnato non è la sua. Eppure il numero corrisponde; la giacca è rossa e di panno, come questa; al suo interno aveva il carnet dell’autobus e dei fazzolettini, che ci sono. Soltanto, manca una cucitura arancione sulla schiena. Una cucitura, ci rendiamo conto?». E si picchiò l’indice sulla tempia, in un gesto eloquente, che il direttore afferrò al volo, ricambiando con un sorrisetto “inamidato”.

«Insomma, hanno aperto le gabbie…» sussurrò all’orecchio della sua dipendente, senza curarsi di parlare piano.

La sventurata davanti a loro avrebbe voluto insistere, ma dalle porte del teatro entrò d’un tratto un ometto anziano, con un cappotto cammello e i guanti di pelle, che le cinse un braccio.

«Cosa fai ancora qui? È un’ora che ti aspetto», le disse.

Lei si guardò intorno, si rigirò la giacca fra le mani, ma fu costretta ad indossarla.

«Ho la macchina in doppia fila, Dora, – continuò l’anziano – ma non avevi detto che lo spettacolo sarebbe finito alle 22,30? Per favore, vieni via. Tua madre sarà in pensiero».

Prima che chiunque potesse ribattere, il direttore intervenne.

«La signora dice che la giacca non è la sua» e così sperò di trovare un alleato. Voleva che quel mesto figuro portasse via quella pazzoide obesa, che li stava trattenendo ben oltre l’orario di chiusura con argomentazioni assurde.

«Dora! Cosa ti salta in mente! – la redarguì il vecchio e poi, rivolto ai suoi interlocutori, – dovete scusare mia figlia, ma talvolta si mette in testa delle cose che non esistono».

E detto questo, infilò la porta, così com’era venuto, con la donna che si divincolava e piangeva, quasi fosse una bambina.

«Questione conclusa! – si compiacque il direttore, rivolto alla guardarobiera – ma proprio qui devono venire i malati di mente?»

Lei gli fece una smorfia, per confermare che nulla poteva in merito. Però attese che lui si allontanasse, prima di mettere nella borsa una giacca rossa e morbida, con una bellissima cucitura arancione. Posta come un’originale spaccatura, proprio nel bel mezzo della schiena.

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Discussioni

  1. Ciao Cristina. Sono nuova di questo sito e questo è il mio primo commento. Ho iniziato a leggere questo breve racconto per curiosità, chiedendomi cosa si potesse scrivere di interessante su una giacca, e mi è piaciuto davvero molto. L’ho trovato equilibrato, senza una parola fuori posto; come una fotografia, immortala perfettamente un momento. L’aspetto che ho apprezzato di più è stato lo stile, che è essenziale, severo, asservito alla trama stessa e che riflette appieno lo spaccato che hai raccontato

  2. Ciao Cristina, sono nuovo di questo sito. Ho letto il tuo racconto è mi è piaciuto sia per il contenuto che per la forma.

    Sai, mi aspettavo un finale diverso invece…e questo per un attimo mi ha spiazzato poi ho capito il tuo intento. Una conclusione reale e non fiabesca per sensibilizzare il lettore sull’ignoranza e mancanza di sensibilità verso coloro che hanno un handicap qualsiasi. In questo caso uno specifico.

    Brava.
    Cordiali saluti

    Romano

  3. Mi sono commossa… povera Dora. Poche righe e tantissimo significato… questo sì che è da pochi. Complimenti per la sintesi piena di sensibilità, realtà disarmante…. adoro quando il tema è la verità che spesso sfugge davanti agli occhi. Ogni giorno ci sono piccole cose che per le persone sensibili diventano profonde ferite, grazie di averne parlato.

  4. Brava Cristina! E grazie a chi l’ha messo in evidenza nell’Open Factor, perché non l’avevo letto. Asciutto, quasi completamente fattuale, è questo per me il suo maggior pregio. Mi piace molto, mi piace lo scivolamento finale.

  5. Un racconto semplice che però bada a tutti i dettagli giusti per immergerti nella lettura, lo stile è asciutto e non lascia spazio a fraintendimenti e voli pindarici. I personaggi hanno poche battute ma riescono comunque ad apparire tridimensionali, non ho notato errori di battitura o altro, direi che è proprio venuto bene!

  6. Ciao Cristina, in questo bel racconto la cosa che più mi ha colpito è proprio la zero considerazione data a Dora da parte degli altri, nonostante il coraggio di andare oltre la timidezza. A volte si rinuncia a dibattere contro i prepotenti per non mettersi in guai peggiori, ritirandosi nonostante si ha piena ragione, e a me è capitato spesso in gioventù, ma Dora viene addirittura presa per matta! Hai ritratto con perfetta semplicità un triste angolo non solo della realtà, ma anche di quanto possa essere meschino il genere umano. Brava davvero?!

    1. Ciao Antonino. Grazie per averlo letto e per il tuo commento. Sono partita dall’idea che la gente approfitta quando vede qualcuno disagiato. Perché sa che tanti non si può difendere. Gran brutta cosa.
      Un saluto 🙂

  7. Grande Cristina! Tu non lo sai, ma la signora corpulenta io la conosco! Ne ho descritta una pari pari in una mia serie Edizioni Open. Ahahah.
    Bel racconto, semplice ma efficace. Spesso la cattiveria della gente sta nelle piccole cose.

    1. Ciao Dario. Hai proprio ragione! Non si perde occasione per ingannare i più deboli. La “stazza” della protagonista doveva essere comparata a quella della guardarobiera. Altrimenti non avrei potuto essere credibile sullo scambio delle giacche. Quella con la cucitura era di qualità migliore e la tizia l’ha voluta per se’, reputando che Dora fosse una poveretta a cui nessuno avrebbe mai creduto. Bella combinazione che anche tu abbia descritto una signora corpulenta! Alla prossima e grazie per i tuoi commenti sempre graditi e preziosi.

  8. Cara Micol, io stessa non avrei saputo commentare meglio! Hai capito esattamente quello che intendevo. Soprattutto, le persone deboli o affette da qualche forma di disagio fisico o mentale, sono bersaglio continuo di mille angherie.
    Grazie per averlo letto. A presto 🙂

  9. Ciao Cristina, il tuo racconto mi ha trasmesso un’infinita tristezza. Proprio perché a volte, nella vita reale, ci viene tolta quella ragione che sappiamo di avere a dispetto delle apparenze. Hai saputo comunicare tutta l’angoscia della protagonista, il suo disagio e coraggio nell’ “alzare la voce” cercando di rompere la timidezza: senza successo. Un racconto triste, perché specchio di una realtà che non ha età.