
La maledizione di Icaro
Nella sua breve carriera di pittore, mai nessun’opera aveva turbato il giovane Apolethios come quella che gli era stata commissionata dal nobile Teodoro: un ritratto di Sirio, la stella più luminosa dell’intero firmamento.
Ma come poteva, lui, riuscire a rappresentare su tela qualcosa di così distante e inafferrabile? Mille volte l’aveva osservata da lontano, quella luce così tenue e discreta, e altrettante volte aveva sentito il cuore stringersi in una morsa a quella visione, senza capirne mai il reale motivo.
Adesso, però, doveva darle una forma. Doveva creare un dipinto che ne catturasse, non solo lo splendore, ma anche l’essenza. Quella stessa essenza che rendeva Sirio il re indiscusso delle fredde notti invernali.
Così Apolethios iniziò ad uscire di casa un attimo dopo il tramonto, vagando per ore come un pellegrino senza meta, in quelle terre che lo avevano visto crescere, armato solo di fogli, colori e tavolozze.
Fu proprio in quei momenti che Sirio cominciò a mostrarsi, non più solo come astro splendente, ma come figura vera e propria, fatta di carne e ossa.
Inizialmente Apolethios non ci fece caso, tanto era impegnato a cercare la sua luce nel cielo, poi iniziò a sentirsi osservato fino a quando, una notte, non ne ebbe la conferma definitiva.
Si trovava sulle sponde di un piccolo lago dalle acque calme e cristalline, la superficie rifletteva alla perfezione l’immagine della stella che tanto ammirava. Lui era intento a riprodurne su tela i contorni quando, d’improvviso, quel bagliore si fece più intenso.
Apolethios alzò lo sguardo incontrando quello di un giovane sulla sponda opposta del lago.
La figura non si mosse, rimase immobile, eterea, irraggiungibile.
Delle vesti azzurre le avvolgevano il corpo, lasciando intravedere il petto scolpito, mentre dei riccioli dorati ricadevano su un volto pallido dai tratti dolci ma affilati.
Apolethios rimase folgorato da quella apparizione.
“Chi sei?” chiese, pur conoscendo già la risposta alla sua domanda.
Il giovane non rispose, si limitò ad osservarlo in silenzio per alcuni interminabili momenti, poi parlò:
“Tu sai chi sono. Mi cerchi ogni notte”.
“Sirio…” sussurrò Apolethios incantato.
“Posso ritrarti sulla mia tela?” aggiunse con un filo di voce, quasi per paura di spaventarlo o di vederlo sparire nel nulla da un momento all’altro.
“Puoi provarci” rispose Sirio con tono calmo.
“Ma ciò che cerchi non lo troverai in me.”
Apolethios non comprese subito quelle parole, non le comprese nemmeno nelle notti a seguire, quando si ritrovò ad ammirarlo da lontano, nei campi di grano, sulla spiaggia silenziosa o nei suoi stessi sogni.
E ben presto, la sincera curiosità che inizialmente il pittore aveva coltivato nei suoi confronti, si trasformò in qualcosa di più profondo, radicato, quasi inevitabile.
Un desiderio atavico iniziò a crescere in lui, fino ad arrivare a divorarlo dall’interno.
Apolethios non poteva più accontentarsi di quella visione ricorrente, doveva trovare il modo di conoscerlo davvero per potergli rendere giustizia nel suo dipinto.
Doveva avvicinarsi, toccare con mano, doveva scoprire cosa si celasse dietro quegli occhi così calmi e luminosi.
“Sirio” lo chiamò una notte, mentre vagabondava in una radura incolta.
“Sirio!” ripeté ancora con voce spezzata.
“Dove sei? Fatti vedere, ti prego!” tentò un’ultima volta.
Alla fine le preghiere vennero ascoltate perché l’astro apparve alle sue spalle.
“Sei qui” sussurrò Apolethios senza voltarsi, ancor prima che gli occhi si posassero su di lui, il suo cuore ne aveva già percepito la presenza.
“Non ho ancora finito il dipinto e la scadenza è alle porte. Non riesco a ritrarti… manca sempre qualcosa.
Ma come posso considerarmi un vero artista se non riesco nemmeno a catturare la tua bellezza, la tua essenza?” ammise ansimando mentre gli occhi si riempivano di lacrime.
Sirio rimase a contemplarlo con uno sguardo carico di compassione, c’era qualcosa in quell’uomo che lo rattristava e, allo stesso tempo, gli ispirava una tenerezza senza eguali.
“Tu cerchi la mia luce, Apolethios.
Ma la mia luce non è fatta per essere toccata, né tantomeno imprigionata” mormorò Sirio mentre un’ombra di amarezza si faceva largo sul suo volto.
Il giovane sentì quelle parole ma non le ascoltò veramente. Sirio aveva pronunciato il suo nome per la prima volta e, solo in quel momento, si rese conto di quanto potesse essere dolce quel suono.
La sua mente e il suo cuore erano in tumulto, Apolethios non riusciva a pensare ad altro. Così, senza nemmeno rendersene conto, si mosse in avanti fino a quando le sue labbra non si poggiarono su quelle della stella in piedi di fronte a sé.
Quando si staccò, tutto il peso di ciò che aveva appena fatto lo colpì come una lama affilata e le lacrime iniziarono a rigargli il volto, incontrollabili.
Fu allora che il cielo si scurì sopra le loro teste, un rombo di tuono squarciò l’aria.
“Perdonami, perdonami!” gridò Apolethios tra i singhiozzi, ma ormai era troppo tardi.
I suoi arti divennero leggeri, le ossa fragili, le dita iniziarono ad allungarsi in un paio di ali traslucide.
Il corpo si ricoprì di una peluria sottile mentre i suoi occhi si fecero immensi e profondi.
Sirio assistette inerme a quella metamorfosi, si rivolse un’ultima volta a ciò che rimaneva del giovane pittore: “Continuerò a vegliare su di te, come ho sempre fatto” poi scomparve in un fascio di luce accecante e tornò alla sua dimora, nel cielo.
Apolethios vagò per giorni senza meta, questa volta senza le sue tele e i suoi pennelli, perché tutto ciò che gli era rimasto erano quegli enormi occhi scuri con i quali cercava incessantemente la sua stella.
Alla fine, in una fredda notte di gennaio la vide. Una luce accecante, maestosa, brillava nel cielo, più viva che mai.
𝑆𝑖𝑟𝑖𝑜, pensò.
Volò in alto, per raggiungerlo.
Il suo battito d’ali si fece più disperato, più bramoso, ormai era ad un soffio dalla salvezza eterna.
Ma quando la raggiunse un calore violento lo avvolse e le sue ali iniziarono a disfarsi come petali appassiti.
Così bruciò la falena.
Attratta dalla luce fatale di un’innocente fiaccola, condannata ad inseguire la sua stessa rovina fino alla fine dei suoi giorni.
Venne consumata da un amore fatto solo di sguardi.
Dall’amore cieco per Sirio, la stella più luminosa dell’intero firmamento.
Avete messo Mi Piace5 apprezzamentiPubblicato in Fantasy
Bellissima storia scritta molto bene. Mi riporta alla mente una serie interminabile di miti classici. Una metafora struggente sull’arte, l’ossessione e l’impossibilità di possedere ciò si ama. Sirio, da astro distante a presenza tangibile, è un’immagine poetica e dolorosa.
Grazie Tiziana ♥️
“Attratta dalla luce fatale di un’innocente fiaccola, condannata ad inseguire la sua stessa rovina fino alla fine dei suoi giorni.”
Questo passaggio è molto poestico👏
Personalmente amo molto i miti e le leggende e questa tua narrazione mi ha particolarmente colpita. La storia è già in sé bella e il tuo merito è stato quello di trovare le parole giuste per raccontarla in uno stile che la abbraccia.
Grazie davvero Cristiana!
Mi piace. Il racconto è un’elegante fiaba tragica che esplora l’ossessione e il desiderio impossibile attraverso immagini poetiche e simbolismi potenti. Tuttavia, la progressione psicologica di Apolethios potrebbe essere approfondita e il rapporto con Sirio reso più enigmatico e ambivalente. Con un maggiore sviluppo emotivo e una tensione più crescente, potrebbe diventare un’opera davvero memorabile.
Grazie per il feedback, è davvero molto importante per me. Concordo pienamente, infatti sono rimasta con il dubbio fino all’ultimo se rendere questo racconto più lungo, dividerlo in episodi e avere così la possibilità di approfondire molti aspetti (tra cui la psicologia dei protagonisti stessi) o adattarmi al limite di parole e condensare il tutto in un solo LibriCK. Questa volta è andata così ma magari la prossima farò le cose in modo diverso 🫶🏻
Complimenti Sabrina, molto bella questa versione. Anche il tono utilizzato è calzante con la storia. Applausi
Grazie Roberto, non vedo l’ora di recuperare anche io la tua ultima serie!