La panchina

 

Giulia aveva comprato un cono gelato alla sua bambina, dal chiosco al centro della piazza. Fragola e pistacchio non erano esattamente i gusti preferiti dalla piccola Ilaria. Lei avrebbe voluto panna e cioccolato, ma ormai erano terminati. Aveva guardato quel gelato con disgusto, facendo  “bleh!”, come fanno i bambini, poi l’aveva spiaccicato per terra. Sua madre era indecisa se rimproverarla, sculacciarla, o andare alla ricerca di un altro chiosco per tenerla buona. Poi, però, aveva preferito lasciar perdere ed era andata a sedersi in una panchina. Aveva preso il pacchetto delle sigarette dalla borsa, ne aveva acceso una, mentre una donna bruna, dalla carnagione scura, si sedeva accanto a lei.

Il cellulare aveva iniziato a squillare: era sua madre. La chiamava dieci volte al giorno, per sapere se stesse bene, cosa stesse facendo, cosa dovesse cucinare per pranzo, quando sarebbe andata a trovarla… Giulia, quando vedeva ma’ sul display del telefono, a volte sbuffava, oppure faceva le smorfie; poi, però, iniziava a parlare, rovesciandole addosso, come una cascata, tutti  i suoi problemi. Era un po’ logorroica, parlava, ininterrottamente, senza riprendere fiato, almeno per mezz’ora. “Si ma’ Carlo è ancora disoccupato. Lo sai quella carogna voleva fare soldi a palate sulla pelle dei suoi dipendenti. Uno è morto usando macchine scarcassate sempre in movimento, per non bloccare la produzione. Un altro operaio è andato in pensione e non è stato sostituito. Due sono stati trasferiti. Erano rimasti in quattro: il collega di Carlo, per fare il magnifico salvatore della fabbrica, il custode e il capo reparto, dirigente di una squadra fantasma o piegato in due, come operaio. Alla vedova del dipendente che è rimasto incastrato nell’ingranaggio, hanno inviato un misero assegno, la liquidazione e un telegramma di sentite condoglianze. Il tribunale ha stabilito che l’incidente è avvenuto per un malore improvviso. Carlo dice che non farà la fine del suo collega; neanche se gli garantissero un monumento in piazza san Pietro. Meglio un asino vivo che un dottore morto, ma’, a costo di mangiare pane e cicoria per altri dieci anni. Certo ma’, che non facciamo salti di gioia; caso mai salti mortali. L’affitto è aumentato, il sussidio non basta. Prima o poi ci sfrattano. Senza contare le bollette, la rata della macchina, la quota per la scuola materna di Ilaria, quella del condominio… Mi servirebbero almeno cento euro. Tu ma’, me li puoi prestare?” Quando sua madre le chiedeva conto dei soldi che le aveva già dato, Giulia si innervosiva. O ma’… erano due spiccioli, non bastavano neanche per comprare caffè e sigarette. E quando, per l’ennesima volta, le ripeteva che doveva smettere di fumare, allora Giulia troncava il discorso e chiudeva la chiamata.

La donna bruna, seduta accanto, non poteva fare a meno di ascoltare e di sentirsi toccata da quelle parole, anche se non capiva perfettamente l’italiano. “Io capire”, aveva detto Ana, per un bisogno tipicamente femminile, di condividere, tra donne, le difficoltà della vita. Poi le aveva mostrato la pancia, per dirle che aspettava un bambino. Le aveva indicato, con le dita di una mano, che quello sarebbe stato il quarto.  Giulia l’aveva osservata con curiosità e un po’ di compassione, poi le aveva chiesto se anche suo marito fosse disoccupato. La donna aveva esitato, poi le aveva confidato che suo marito era in carcere. “Lui rubato. Io non volere, ma lui dire sempre schiavo no, meglio galera.” Aveva fatto una pausa poi, sospirando, aveva continuato: “Io non potere lavorare. Tutti paura che io rubare. Noi occupato casa vuota. Per mangiare noi chiedere a suore e assistente sociale. Solo domenica noi mangiare bene, insieme con poveri”.

In quel momento era arrivata un’altra donna: bionda, alta, bella, con una cicatrice sul viso. Aveva chiesto se poteva sedersi con loro. Le altre panchine della piazza erano tutte occupate. Si erano spostate per farle spazio, mentre lei toglieva i fazzoletti di carta dalla borsa. Ne aveva preso uno per asciugarsi la lacrima che ancora le bagnava il viso. I suoi occhi erano cerchiati, il volto pallido, le labbra livide. Ana e Giulia le avevano chiesto se stesse male. Lei aveva indicato la parte dolente, toccandosi la pancia; però stava già meglio. Le capitava da quando aveva perso il bambino. Le due donne l’avevano guardata con curiosità e un po’ di compassione. Irina, allora, aveva iniziato a raccontare. Era già arrivata al sesto mese di gravidanza. Lui non lo voleva quel figlio, ne aveva già altri due. Voleva che abortisse, ma lei l’aveva tenuto; allora lui era sparito, per un po’. Irina, nei primi tre mesi, aveva vomitato anche l’anima e aveva perso molti chili. Quando lui era tornato gli aveva nascosto di essere già al quarto mese. Si era rifiutata di avere rapporti sessuali con lui, per non mostrarsi nuda. E poi sentiva per quell’uomo, una forte repulsione, come se fosse diventato improvvisamente grasso, unto di sudore e sporco. In realtà era magro e puzzava soltanto del solito profumo del suo dopobarba. Lo stesso profumo che aveva contribuito ad affascinarla, le prime volte che si erano incontrati.

Il suo rifiuto l’aveva fatto infuriare. Era andato via sbattendo la porta. Era tornato due mesi dopo. Lei non voleva farlo entrare, ma lui l’aveva minacciata. Quando aveva visto il pancione che spuntava, come un grosso cocomero, dalla sua t-shirt bianca , l’aveva coperta di insulti, poi l’aveva spinta verso il muro. Lei era caduta di botto sopra un cubo di legno. La sua maglietta candida si era tinta di rosso. Lui l’aveva ignorata ed era andato via, cieco di rabbia. Irina aveva dovuto chiamare la sua amica Sasha, per farsi accompagnare all’ospedale. I medici le avevano chiesto più volte, in che modo fosse successo. Lei aveva sostenuto di aver inciampato sul tappeto e di essere finita incidentalmente sullo spigolo del tavolino. La pratica per il permesso di soggiorno era ancora in sospeso. Irina aveva paura che potessero rispedirla indietro, al suo paese, martoriato dal fuoco delle armi, dalla fame e dal freddo gelido che arrivava dalla Siberia.

A quel punto Giulia si era alzata dalla panchina e aveva  chiamato sua figlia, che giocava con altri bambini, al centro della piazza. Era quasi l’ora di Il paradiso delle signore non voleva rischiare di perdersi la puntata.

Un’altra donna si era subito avvicinata e aveva occupato il suo posto. Aveva fatto un cenno di saluto col capo, poi era rimasta in silenzio, con una mano che reggeva la testa, il gomito poggiato sul bracciolo della panchina e lo sguardo perso nel vuoto. Aveva in testa le solite immagini  e gli stessi fragori che le rimbombavano da giorni. Rivedeva, in certi momenti, anche le sue rose, gli ortaggi e l’albero delle mele in fiore. Solo per un attimo, poi tornava l’angoscia. Negli ultimi otto giorni Alina aveva dormito poche ore. Il sonno stava per farla crollare; eppure doveva lavorare. Più tardi avrebbe ricominciato, come tutti i giorni, ad assistere un’anziana signora che la chiamava mamma.  Un’insegnante di storia e filosofia. Una donna colta, che aveva studiato tanto, insegnato, scritto libri… Ormai malata da molti anni, di una grave demenza senile. Non riconosceva neppure i suoi figli, che respingeva, come se fossero pericolosi nemici da scacciare. Di Alina si fidava, si lasciava lavare, pettinare, spogliare, senza protestare.  Quando lei non c’era, appena qualcuno dei suoi figli osava avvicinarsi troppo, urlava come se volessero scannarla. Quando si sentiva assediata nel suo spazio vitale, iniziava a lottare, senza esclusione di colpi, con i piedi, con le mani, con urla e sputi ad ampio raggio. Solo Alina riusciva a placarla. Alina però era stanca, aveva bisogno di riposo, di dormire. Non era neppure sicura di volersi risvegliare.

Il gomito era scivolato giù dal bracciolo della panchina, insieme alla mano che reggeva la testa, per un colpo di sonno. Le due donne l’avevano osservata con curiosità e un po’ di compassione. Lei aveva detto il suo nome, porgendo la mano. Aveva iniziato a raccontare la sua storia. Stava in Italia da molti anni. La sua famiglia era rimasta lontano: marito, figlio, fratello e due nipoti. Abitavano a Brovary, in una casa modesta, con l’orto, il cane, il gatto, le rose e le mele. Si sentivano per telefono tutti i giorni. Riuscivano anche a guardarsi in faccia, con le video chiamate. Pochi giorni prima, erano seduti intorno al tavolo; c’era anche Zar, il suo gatto. Era rimasta una piccola scorta di mele. Per farle durare più a lungo, ogni volta ne tagliavano due, a spicchi, da dividere in cinque. Cinque colossi, che deperivano a vista d’occhio, mangiando come criceti. Mancava tutto, anche l’acqua potabile; per idratarsi prendevano la neve dal cortile e la facevano sciogliere, per poterla bere. All’improvviso Alina aveva sentito un boato. La comunicazione era stata stroncata di colpo. Il giorno dopo aveva saputo che la loro casa, con tutta la sua famiglia dentro, era stata sventrata. Le era rimasta soltanto sua cognata, che lavorava come badante, a pochi chilometri di distanza da lei. E una vecchia signora, bisognosa di assistenza, che aveva il doppio dei suoi anni e la chiamava mamma.

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Discussioni

  1. Spesso ci fossilizziamo sui nostri problemi, senza pensare che accanto a noi drammi ben più intensi sono in azione. Mi è piaciuto questo sodalizio fra donne, il raccontarsi ad estranee che permette di non avere filtri ne pudori: voglio immaginare che anche se ognuna ha proseguito per la sua strada qualcosa delle altre sia rimasta in loro

    1. Grazie Micol per la tua attenzione. Forse “Le donne erediteranno il mondo” ? Per usare le parole contenute nel titolo di un libro di Aldo Cazzullo. O forse qualche guerrafondaio vorra` continuare a spadroneggiare, distruggere e spargere altro odio? AI posteri o a breve l’ ardua sentenza.
      ♡ Ciao ♡

  2. Un brano un po’ amaro, spesso noi che siamo dei privilegiati ci infastidiamo a sentire le disgrazie altrui, ci rovina l’umore, forse è quel residuo di coscienza no nancora soffocato dai graddi saturi. Invece ci sono storie, drammatche a pochi metri da noi, che riguardano tutti. Mi è piaciuto.