La scodella del diavolo

Serie: Tutto in una sera


Per l’arrivo del nostro bus c’è d’attendere almeno tre quarti d’ora e per non farci disseccare dal sole ci rifugiamo, con la scusa di visitarla, nella vicina chiesa di santa Giustina.

Si tratta di una poderosa costruzione grande quasi come due campi di calcio che secondo google maps dovrebbe contenere le spoglie di san Luca Evangelista.

All’esterno della chiesa, su uno spazio ancora più vasto, vi è l’omonima abbazia che naturalmente non vedremo perché entriamo in chiesa solo in cerca di frescura anche se l’intenzione di mia suocera è quella di reiterare le preci per liberarsi di me.

L’interno è tanto vasto quanto spoglio, in ogni caso è ricco di frescura. Tre religiosi dentro un saio nero ci squadrano con finta indifferenza, parlottano sottovoce tra loro come per non smuovere neppur minimamente l’ovattato silenzio dell’ambiente. Proseguiamo lungo la navata centrale deserta e vuota, non vi sono panche ne sedie e le pareti sono grigie e smisurate così che l’aspetto ne risulta alquanto spettrale.

Mia suocera si guarda intorno timorosa, non sa dove attaccare le sue preghiere e suppliche varie e allora mi lancia un’occhiata come a chiedere di fermarci in qualche angolo. Intanto, io vago con lo sguardo in cerca di una panca dove, facendo finta di pregare, avrò modo di osservare con più attenzione i diversi personaggi del luogo.

Superata una poderosa colonna arriviamo alla intersezione tra la navata centrale e il transetto che tanto piccoletto non è poiché al suo interno può tranquillamente starci la cattedrale di Cagliari. Ci sistemiamo su una panca giusto a ridosso della colonna monstre davanti al presbiterio o capocroce. Non sono un esperto di architettura religiosa, mi sto facendo aiutare da wikipedia, altrimenti avrei scritto quell’altare grande là in mezzo al termine della navata.

Sul lato sinistro del transetto, che poi sarebbe una navata trasversale, c’è un altare senza grandi pretese in cui viene officiata una messa e alle pareti, uno di fronte all’altro due giganteschi quadri con scene immagino di santi. Al centro del basso altare un sacerdote esegue il rituale religioso con voce monocorde e una ventina di fedeli rispondono con la medesima piatta intonazione.

Ciò che mi ha colpito è stata la figura di un vecchio con la lunga barba bianca seduto, forse sarebbe meglio dire assiso, accanto all’officiante. Il suo aspetto è solenne, con la mano appoggiata a un bastone si aiuta a tenersi un poco eretto, ma il peso della sua età si vede per intero in quella schiena curva.

È immobile, come fuori dal tempo e forse l’hanno messo lì a simboleggiare che la storia della Chiesa si perde nella notte dei tempi. Non parla e come tutti i simboli lascia che siano gli altri a immaginare un messaggio, una parola o una intenzione che assecondi i loro desideri. La sua barba è come quella del dio negli affreschi o nei quadri rinascimentali, dei filosofi greci, oppure di tanti frati questuanti che la portano come segno distintivo. Insomma la barba di un nonno un po’ severo ma anche benevolo.

Ma la Chiesa, così come ha diverse navate, diverse cappelle e diversi altari ha pure diversi aspetti. Sul lato destro del transetto, senza panche o sedie, con in fondo un altare troppo lontano per abbandonare il ristoro dello star seduti e andare a dargli un’occhiata, una figura anch’essa emblematica. Un monaco, dentro una lugubre tonaca nera, alto, magro e segaligno, ricurvo in modo abnorme sul fianco sinistro che cammina sbilenco aiutandosi con un bastone stranamente tenuto con la mano destra, la testa ossuta con lo sguardo torvo e severo, l’occhio spalancato sempre in continuo movimento a scrutare ogni angolo, ogni persona nel suo raggio d’azione, le labbra sottili, tagliate, con l’angolo della bocca leggermente sollevato quasi in un moto di disgusto, si muove brandendo il suo bastone più come un’arma che come un sostegno.

Glielo si legge in faccia che si sente il padrone di casa, che mal sopporta i turisti che violano quel luogo con il loro sudore, con le loro macchine fotografiche e con quelle vesti che mostrano le gambe delle donne, che sono perdute, che danno la perdizione. Fosse per lui le scaccerebbe tutte con il suo bastone perché lui lo sa, chi porta la scodella del diavolo fa perdere la santità dell’uomo.

La sua casa deve rimanere pura, pura come le sue convinzioni, come il dio a sua immagine e somiglianza che assolve chi lo santifica ciecamente e danna invece chi del dubbio ne fa ragione di vita. Quel monaco non ha incertezze, con il suo bastone dispensa e divide, tasta e impone e nell’agitarlo tra sé talvolta a mezz’aria, tradisce il suo pensiero di cupo rancore.

Ha visto due ragazzi, aria da studenti curiosi e rilassati che si sorridono spesso. Lei in gonna pantalone, corta quanto la giovane età richiede e una maglietta che pur appena scollata, riesce a malapena a contenere con discrezione il seno fresco dei vent’anni. Lui, della stessa età, con spessi occhiali e il viso di chi si divide tra libri e sogni, indossa una maglietta simile a quella della sua compagna, il cui però unico pregio è quello di mettere in mostra la corporatura esile di chi con lo sport non ha mai poi tanto legato.

Sono seduti su una panca all’inizio del presbiterio e danno le spalle all’altare maggiore, lui con la mano indica uno dei grandi quadri del transetto, le dice qualcosa con aria soddisfatta mentre lei lo guarda tra l’ammirato e il divertito.

Il monaco si accosta con la rapidità che gli permette il suo stare deformemente ripiegato sul lato sinistro, cammina senza poggiare per terra il suo bastone, anzi lo protende in avanti come a scavare un solco, come a fendere l’aria. Si accosta ai due ragazzi e vedo che dice qualcosa, purtroppo sono distanti e non riesco a sentire, agita il bastone e per quanto lo tenga basso, i suoi movimenti hanno del minaccioso e autoritario.

Serie: Tutto in una sera


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