La Smart di Niko 

Dovevo venirci con la Smart. La sua. Grigia metallizzata, interni neri, sedile tirato avanti per quelle gambe secche che si ostina a nascondere.

Lui ci sale adagio, quasi chiedendo permesso anche alla macchina. Regola sempre lo specchietto due volte, anche se non guida. Si passa la mano tra i capelli e sussurra: «Così è meglio». Come se parlasse a sé, non a me.

Invece sono qui. Sole che frigge l’asfalto, dentro un catorcio di Fiat che soffia aria tiepida. Un forno su ruote. La 600 brontola, strappa, poi tira. Mi trascina fino al San Luca, l’ospedale, come se potesse ancora servire a qualcosa.

Sono in ritardo. E non per il traffico.

Ho capito tutto tardi.

Quando i figli smettono di parlare non fanno rumore; io quel vuoto l’ho scambiato per pace, per “fase”, per le cuffiette lasciate in giro come cavi annodati. Per stanchezza. Per il lavoro: mani sempre nere d’officina. Mani che sanno svitare, non tenere stretto.

A colazione si dice poco. Lui tè, io caffè. Ogni tanto il Milan: a me non interessa, serve solo a trattenerlo fino all’ultima briciola.

Niko spinge i biscotti al bordo del piatto come se dovesse lasciarne uno a qualcuno. Beve in due sorsi, si alza in silenzio. Rimette la sedia al suo posto, preciso: una scusa anche al legno.

Niko è sempre stato troppo magro. Troppo zitto. Attento a non pesare.

Tutto in lui è una domanda senza voce; io voglio risposte. Un figlio “giusto”: maschio, dritto, con appetito.

Gliel’ho detto. Una volta. Urlando.

Sera, tg acceso, piatti sul tavolo.

«In casa mia niente mezzi uomini. Niente succhiacazzi.»

Parole come bulloni sparati da una pressa: non pensate, solo lanciate.

Lui niente. Non ha preso la forchetta.

Ha guardato il tovagliolo piegato in due, si è morso il labbro. Appena.

Quel silenzio mi ha colpito più dell’urlo.

Da lì ha cominciato a sparire, non di colpo: a pezzi.

Prima la voce, abbassata. Poi il corpo, che si è assottigliato.

Infine gli occhi. È rimasto un’ombra sul divano.

Io aggiusto motori, non figli.

E però la Smart gliel’ho presa.

Regalo senza compleanno, senza festa: il mio modo di stringergli la mano senza dirlo.

Non se l’aspettava. Da mesi non chiede niente, neanche cinque minuti in più a tavola.

Gliel’ho portata sotto casa, chiavi in mano. Mi ha guardato come uno che non sa se ridere o piangere.

Non l’ha abbracciata. Nemmeno me. Ha sfiorato la carrozzeria come si tocca qualcosa che può spaventarsi.

Ha detto solo: «Grazie».

Una parola piccola, con una voce che non sentivo da tempo.

Io ho fatto il tecnico: motore, consumi, gomme.

Dentro pensavo: forse il padre si fa così — poche parole, un volante in mezzo e andare.

San Luca sa di disinfettante e minestra di ieri.

Cammino pesante, come con piombo nelle suole.

Niko non c’è.

Un ragazzo magrissimo mi guarda dal letto.

«Forse è andato a fumare», dice. La voce esce sottile, come se respirare bastasse a stancarlo.

Gira il braccialetto del reparto tra le dita come un rosario. Sorriso che non arriva agli occhi, una cicatrice fresca sul polso.

Annuisco. Dentro qualcosa si accartoccia.

Cerco Niko nei bagni col neon sfarfallante, nei corridoi d’alcol, tra infermiere che parlano sottovoce.

Ogni porta è un colpo: lenzuola lisce, flebo appese, televisori muti.

Ovunque, tranne dove serve.

Accelero. Rallento. Mi fermo. Riparto. Sudo. Niente.

Poi un vuoto d’aria. Una finestra spalancata.

Per un secondo spero di sbagliare. Guardo lo stesso.

Mi affaccio.

È giù.

A terra, piegato storto, come una cosa lasciata cadere da troppo in alto.

Il sangue si spalanca e scappa: troppo, subito.

Si inchiodano in pochi: una donna si tappa la bocca; un ragazzo alza il telefono; un infermiere tenta una corsa. Non basta.

Io no. Non scatto. Non urlo. Resto a metà della finestra.

Lì sotto c’è il mio posto mancato: avrei dovuto arrivare io, farlo salire, chiudere la portiera, musica su, via.

Prendo le scale. Ogni gradino picchia.

Fuori l’aria è calda, sa di ferro e gomma.

Mi inginocchio.

Con le dita gli libero i capelli dal sangue; ci passo dentro come se potessi rimetterlo in ordine. Non l’avevo mai fatto.

Vorrei dirgli tutto: ho stretto i bulloni sbagliati, lui andava bene.

La mia bocca non si apre.

Gli prendo la mano, la bacio, me la premo sulla faccia. Stringo finché mi bruciano le nocche.

Il ferro mi sale in gola.

Voglio mio figlio. Voglio Niko.

«Scusami,» dico senza voce.

Gli appoggio il palmo sul petto, dove da piccolo gli contavo i battiti.

Adesso non trovo nulla.

Nel cortile il sole batte sul pavé; le ruote di una barella tremano sulle fughe, il lattice schiocca. Una sirena spenta, un «Via» trattenuto.

Il resto è rumore: voci tagliate, un telefono che vibra, suole che strisciano. Non mi arriva niente.

Ho solo lui davanti e nessun attrezzo che serva.

Vorrei un minuto prima, uno solo, e saperci stare.

Il funerale è passato in fretta, come se avessero premura di chiudere.

Fiori bianchi, prete che dice “ragazzo fragile”, io coi pugni in tasca.

Fragile no: traboccava.

Avrei voluto dirlo a tutti, ma la voce è rimasta ferma in gola.

A casa il silenzio è diventato muro.

Scarpe accanto alla porta, tazza con l’alone di tè, una maglietta sulla sedia.

La sera cammino per le stanze, accendo e spengo, come se l’interruttore potesse riportarlo.

È passato un mese.

La Smart sta sotto il telo grigio. Pronta.

A volte la scopro, giro la chiave, la lascio al minimo.

Il motore tossisce piano, poi si stabilizza. Un cuore che non vuole spegnersi.

Resto seduto. Chiudo gli occhi: lui al fianco, finestrino giù, musica a coprirci, quel sorriso corto e quelle guance che il sole arrossava subito.

Riapro: il posto è vuoto. Sempre.

Una volta dal medico mi è uscito di botto:

«Mio figlio non era rotto. Ero io: col mio amore sbagliato gli ho chiuso le valvole».

Lui ha abbassato gli occhi sulle carte, come se fossero più urgenti di quello che stavo dicendo.

Forse non mi ha ascoltato.

Ma io lo sento ancora addosso, ogni volta che apro bocca e l’aria non esce.

Ogni volta che giro la chiave.

Non piango. Non urlo.

Sto lì. Aspetto. Nell’abitacolo stretto, il cruscotto che finge futuro.

La radio sta muta; nel minimo del motore, se sto zitto, la sua voce torna breve, spezzata, viva.

«Ti raggiungo», dico. «Per forza. È colpa mia.»

Il minimo tiene. Il contagiri trema a un filo.

«Non ancora» aggiungo, senza fiato.

Stringo il volante finché brucia.

Poi il motore inciampa, riprende.

Resto ad ascoltare quel tremolio che mi tiene al mondo per ancora un minuto. Solo uno.

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Discussioni

  1. Non ci sono retorica, giudizi, ipocrisie, in questo testo. È privo di ogni banalità. Spoglio e crudo come lo stile, come i sentimenti quando raschi via le corazze e arrivi dritto alla polpa, lì dove pulsa e fa più male. I tuoi personaggi sono veri, nudi, e spogliano anche noi. Ci mettono di fronte ai nostri mostri, gli specchi. Ti leggo, e mi dico: sì. È così che si scrive.

  2. Le tue stilettate sono arte. Un altro racconto che dimostra la grande capacità di raccontare un dramma, tirando dentro il lettore-spettatore, come se fosse lì, presente, ad assistere, impotente, a un dolore atroce per quel ragazzo che ci sembra di conoscere e per quel padre incapace di capirlo o di accettarlo sino in fondo, e di riuscire ad amarlo diversamente, fino a che non é stato troppo tardi.

  3. Ciao Lino. Il tuo testo è potentissimo. Colpisce per la sua sincerità e per come riesce a trasformare il rimorso in racconto. La voce del padre è credibile, cruda, diretta e si sente tutto il peso della colpa e l’incapacità di comunicare.
    Il punto di forza è la tua scrittura, sempre asciutta, quasi meccanica, che rispecchia perfettamente il protagonista.
    Se devo trovare un ‘limite’, è che la tensione emotiva resta sempre altissima e uniforme e manca quindi un momento di respiro, qualcosa che permetta al lettore di elaborare prima di arrivare al colpo finale.

    1. Grazie davvero: hai letto dentro la voce. La tensione resta alta perché, nel breve, ho dovuto scegliere dove tagliare, classico dei racconti con limiti di spazio. Nell’edizione più lunga ho inserito qualche respiro in più. Qui pubblico versioni compatte, pensate per “avvicinarsi” alle regole della piattaforma. Ti ringrazio per la lettura attenta: è il tipo di nota che aiuta a migliorare la pagina, non solo a difenderla.

  4. A parer mio questo racconto è costellato da tante piccoli frasi-pugnale che riescono nel loro intento alla perfezione: ti si conficcano nella testa e ti fanno pensare, straziante e bellissimo 👏🏻

  5. Ogni parola di questo racconto è una stretta al cuore. La consapevolezza dell’irreparabile e poi la rassegnazione che senti come una condanna. Leggevo e vedevo “La Pietà” di Jacopo Cardillo. Bravissimo, Lino!

  6. Un rapporto difficile, quello tra padre e figlio. Ne so qualcosa, a volte non sappiamo comunicare e fa male accorgersi troppo tardi dei danni che abbiamo causato. Un racconto di dolore, rimpianto e solitudine, reso in modo intenso e realistico.

    1. @Mauri Grazie. Era proprio quello: silenzi che fanno rumore, bulloni stretti nei punti sbagliati. Niente riscatto, solo un padre al minimo che finalmente vede. Sapere che ti è arrivato mi conforta e fa male insieme.