La soldatessa

Mi chiamo Ayelet e sono una soldatessa dell’IDF. Sono entrata nel Tzahal a diciotto anni. L’esercito è stata la mia prima vera casa. I miei genitori, divorziati, erano o in guerra tra loro o troppo assenti per lavoro per badare a me. Lo Stato è diventato mia madre e mio padre, il mio onore. Nell’IDF mi sono subito distinta, ero così brava che mi hanno fatta localizzatrice, però fino al 2018 sono stata impiegata solo nelle pattuglie e ai checkpoint.

Poi è arrivato Ariel. Ci siamo sposati dopo pochi mesi. Ero certa che fosse l’uomo giusto e per ora è ancora così. Il primo giorno dello Shavuoth del 2017 è nato Eden. Sono rientrata dalla maternità mentre ancoro lo allattavo, avevo deciso di essere una madre presente e di prenderla con calma. Non c’era momento di maggiore gioia nella giornata, dopo i pattugliamenti, che tornare da Eden e vederlo attaccarsi al mio seno.

Eden è così buono e bello che dimentico che durante il giorno imbraccio un fucile e sono autorizzata a dare la morte, dimentico gli sputi quando passo in pattuglia e gli sguardi carichi d’odio. Da quando sono madre mi chiedo come fanno le altre, le arabe dall’altra parte del muro a sacrificare i loro figli sull’altare di una causa persa, ad imbottirli di falsità fin dalla nascita. Non capisco la storia dei martiri e non mi va che mio figlio cresca avendo paura e odiando qualcuno. Si può odiare qualcuno per nascita? Dopo Eden guardo quei bambini diversamente. Dal mirino del fucile li vedo correre ignari, immagino le loro vite e penso a come sarà quella di mio figlio tra qualche anno. Forse saranno colleghi di lavoro, più probabilmente non s’incontreranno mai, o peggio diventeranno avversari. Li osservo e spero di non scorgerli con un sasso in mano, con un fiammifero o peggio con un coltello perché in quel caso dovrei fare il mio lavoro. Basta poco perché si ordini d’intervenire.

Nel 2018 ho finalmente assunto la funzione di localizzatrice nella zona est di Hebron. Per giorni abbiamo solo osservato la marea che montava. Al comando ci hanno detto che gli arabi stavano provocando i coloni. Oggi è il giorno del compleanno di Eden. Ed è anche il giorno in cui dovrò fare il mio lavoro. Mi sembra però che tutto sia cambiato. Penso che festeggiare il compleanno di mio figlio facendo sparare a qualcuno non sia proprio il massimo.

La folla quel giorno è in fiamme. Io però vedo manifestare i soliti ragazzi. Dall’alba hanno già concesso l’autorizzazione a sparare più volte. Sono stati gambizzati più di cinquanta palestinesi che correvano su e giù lungo il confine tracciato dal filo spinato, incitando la gente. Cinquanta zoppi in più in un solo giorno. Questo sarà un paese di storpi. Io inizio a tenere d’occhio la mia area. Un ragazzo di non più di quindici anni mi urla davanti, corre come un forsennato, sembra mi guardi dal mirino ma, credo, sia solo un’impressione. Spesso esce dalla zona di tiro e io sospiro di sollievo. Quanti anni ha?

Oggi non voglio sparare a nessuno. E’ il regalo di compleanno per Eden. Il mio compagno tiratore mi legge nel pensiero: “Che succede Ayelet, oggi non ti va?”. Facciamo coppia dai tempi dell’accademia, ci rispettiamo reciprocamente, tuttavia mi sento in diritto di dirgli una mezza bugia sperando che ci creda.

“Scusa sono stanca, stanotte Eden ha fatto i capricci. Ma ora ti servo qualcuno”, incollo il mirino all’occhio e mi concentro.

La mia debolezza e la mia bugia mi fanno male però. Il mio esercito non si merita quel trattamento. Tra un po’ sarà evidente che non sono buona per questo mestiere. La vecchia Aye si ribella. Scelgo un bersaglio, un bersaglio adulto e potenzialmente pericoloso. Il mio seno inizia improvvisamente a farmi male. Non capisco il motivo, avevo usato il tiralatte come al solito. Inizio a pensare alla festa di Eden che sarebbe cominciata tra due ore e io sono ancora in ginocchio per quei manifestanti, anzi per quei ragazzini. Chissà quand’era stata la loro ultima festa di compleanno, chissà se ne avrebbero festeggiata un’altra. Mi asciugo il sudore sulla guancia. Controllo il ragazzo nel mirino. Due Ayelet si affrontano sulla collina di Hebron. Faccio prevalere la soldatessa. Fornisco la posizione, l’autorizzazione a sparare arriva rapida e il ragazzo che fino a un momento prima saltava come una cavalletta ora giace per terra, sull’asfalto bollente di metà maggio.

“Ottimo Aye”, il mio collega ricarica il fucile con calma come stesse rimontando il toner della stampante in ufficio. “Forza, tra venti minuti smontiamo”.

Sono ancora rintontita ma torno a guardare nel mirino. Non cerco nuovi bersagli ma di capire che fine abbia fatto il ragazzo. Il seno continua a scoppiarmi, credo che la tuta inizi a bagnarsi. Mi vergogno profondamente.

Un altro bambino mi attraversa il mirino, questa volta più piccolo dell’altro o forse solo più basso. Sono così stanca e voglio tornare a casa da Eden. “Mio Dio” penso – “aiutami!”, ma la mia fede è come una lampadina a corrente alternata. “Eden aiutami tu. La tua mamma spara ai bambini”.

La cosa peggiore sta per arrivare. Il mio collega ha male ad un gomito e mi dice quello che mai avrei voluto sentire: “Ayelet dammi il cambio o qui mi sembrerà d’impazzire”. Devo obbedire al suo ordine. Mi fornisce la posizione e dopo un secondo il comando concede l’autorizzazione a sparare. Sono ormai una macchina. Sparo un colpo proprio sopra il ginocchio. Steso per terra il ragazzino sembra morto. Il cuore mi si è fermato come il giorno in cui ho temuto che Eden soffocasse con un pezzo di pane. Dal mirino vedo che il piccolo viene portato via. Di lui rimane una striscia di sangue sull’asfalto, piccola e scura. Vedo il suo viso pallido. Il mio collega esulta e fa stiramenti con il braccio. Dice che deve andare dal fisioterapista.

Ho finito il turno. Arrivo a casa in preda all’ansia, mi spoglio in fretta. La tata è con Eden, già lo sento che si agita. Faccio la doccia e mi accorgo solo allora che il seno non mi duole più. Sotto l’acqua piango, non so però se per commiserazione verso me stessa o per il bambino che stavo per uccidere e che forse ho ucciso. Mi sistemo i capelli in una coda di cavallo e indosso l’abito della festa. Orami la giornata è finita. Corro da Eden e lo abbraccio. Come sempre lui si aggrappa al mio seno avido che però, oramai, è vuoto.

Lo stringo forte e iniziamo a piangere insieme.

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Discussioni

  1. Un bel racconto. Crudo, duro gestito tramite l’ambivalenza, madre e cecchino che porta con sé la violenza forzata ma capace di mantenere l’amore per un figlio. È un racconto voragine, che svuota, proprio come il latte mancato.