La strada di casa

Resti in piedi con un calice di vino nella mano sinistra, hai i capelli raccolti in un’alta acconciatura, sfoggi vistosi gioielli al collo, alle orecchie e ai polsi.

Congedi la domestica con una rapida occhiata, posi il bicchiere sul tavolo e inizi a lisciare delicatamente la gonna. Il trucco, perfetto come al solito, ti illumina il viso. Fai una smorfia e afferri uno sgabello, lo trascini fino a me, a quel punto ti accomodi lentamente. Stropicci tra le dita la manica del mio vestito e sorridi con riluttanza.

Durante il tragitto la radio riempie il silenzio che regna nell’auto, tu non sei propensa al dialogo. Non lo sei mai ultimamente.

Accostiamo nei pressi di un negozio di giocattoli dall’insegna lampeggiante. Una ragazza avvolta in una sciarpa sorride a un bambino che saltella davanti alla vetrina colorata. Scendiamo dalla macchina e mi indichi una sartoria dall’altro lato della strada, allungando il passo in quella direzione.

Per una decina di minuti un uomo mi chiede di restare ferma mentre si muove intorno a me con il metro e annotando le mie misure su un taccuino di pelle. Quando il sarto comunica che impiegherà un mese per realizzare il nuovo abito, tu gli commissioni il lavoro con reticenza e a patto che il risultato soddisfi totalmente le aspettative.

Saluti rimarcando che la perfezione è il minimo che si possa pretendere.

Tornando verso l’auto esiti di fronte al panificio. Ho sempre fame a quest’ora. Decidi di entrare, io alle tue spalle. Come una carezza mi arrivano odori che sanno di buono. Ti tiro la gonna, cerco la tua attenzione, mi ignori, fai un gesto con la mano come a scacciare una mosca. Ti metti a parlare con il fornaio dietro il bancone, io guardo le crostate di mirtillo oltre il vetro, non mi guardi, non mi vedi. Mi stacco da te e raggiungo lo scaffale dei biscotti, quelli al cioccolato sono troppo in alto. Salgo in punta di piedi, non ci arrivo, mi sento piccola. Sono piccola.

Vicino alla porta sul retro c’è un cane accucciato che sbatte la coda su un tappeto. Vorrei accarezzarlo, vorrei giocare con lui. Resto lì per un po’. Mi accontento di osservarlo. Uno starnuto mi fa trasalire, una donna dietro di me si stropiccia il naso con un fazzoletto ricamato, tu non sei più dove stavi prima. Ti cerco con lo sguardo, poi mi muovo velocemente, non riesco a trovarti. Sei ancora qui Mamà?

Passo sopra gli stivali di un signore che si ritrae di scatto. Faccio un giro su me stessa e avverto una piccola fitta alla pancia. L’istinto mi trascina fuori. L’aria fredda è uno schiaffo in faccia, il marciapiede una coltre di foglie sotto i piedi. Mi prende quell’angoscia che viene anche di notte quando le ombre sul muro diventano fantasmi e nel letto mi scappa quel grido che ti fa correre nella mia stanza. Ma qui non riesco a urlare, non mi esce la voce. Magari ti sei stancata, a volte lo dici che non hai più voglia di questo posto. Mi hai lasciata al buio Mamà?

Penso alla strada verso casa, sono le stesse vie che vedo dal finestrino della corriera quando torno da scuola. Prendo coraggio, vado verso il ponte che passa sopra il canale. I fari delle auto mi vengono incontro, sembrano occhi di animale. I miei passi si fanno piccoli e la gola più stretta.

Imbocco i vicoli intorno alla chiesa, qui un dubbio mi piega le gambe, non ricordo la direzione giusta. Mi devo sedere su un gradino di pietra, passano persone, le sento ridere tra loro. Nessuno fa caso a me. Forse è di me che ridono.

Mi viene da tossire, in questi giorni ho la tosse. Sarà che sono malata, come la gatta nel nostro giardino. Per settimane è rimasta immobile e poi non si è più trovata. È solo tosse Mamà, non ti devi preoccupare, non c’è da curarmi troppo. Poi mi passa come quella volta dei puntini rossi su tutta la faccia. Quella era una febbre cattiva. Non dovrai più chiamare il dottore.

Una mano mi tocca la spalla, la voce di un ragazzo mi chiede se mi sono persa. Non mi sono smarrita, non è colpa mia, tu mi hai lasciata sola. Ma non sono arrabbiata con te, ti sei solo distratta Mamà. Rispondo che da qui non so tornare a casa. Mi vergogno di ammetterlo, lui mi offre la sua mano, e un sorriso gentile. Lo riconosco, è il tizio che suona l’organo durante la messa. Ha un buffo cappello che gli copre la testa. Si offre di riportarmi da te.

Il salotto è tutto in ordine, la domestica mi avvolge in una coperta e chiede al ragazzo tue notizie. Lui dice solo di avermi trovata e l’espressione di entrambi si fa cupa. Qualche minuto dopo tu entri dalla porta, stai piangendo. Mai ti ho sentito tanta disperazione nella voce mentre chiami il mio nome. Mi baci con un trasporto che non riconosco. Mi bagni le guance con le tue lacrime. Sei tornata Mamà. Cerchi all’improvviso nella borsa ed estrai una vaschetta argentata. Riconosco il profumo dei mirtilli. Mi viene voglia di piangere con te. Non ho più tanta fame Mamà. Ti stringo. Ti stringo forte.

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Discussioni

  1. Meraviglioso. Quel nome che hai scelto, Mamà, racchiude l’essenza stessa del racconto, è in sé un piccolo capolavoro. Ho sentito la potenza del legame più forte che posa esistere, il sapore di amore, di casa, di porto sicuro. E di contro lo struggersi, il lacerante dolore del perdersi. E di nuovo ritrovarsi, e capire ancora una volta e amcora di più il valore di quel legame.
    Davvero un racconto bellissimo, scritto meravigliosamente bene.

  2. Mi unisco a Sergio nei complimenti che sono dovuti per il tuo modo di scrivere e per un racconto che stringe il cuore. Due ‘donne’ a confronto, fragili e delicate. A un certo punto della narrazione, non lo sai più quale delle due è la bambina che ha bisogno di protezione. Ho sentito forte quel sentimento quasi di dipendenza che ci lega ai nostri figli quando noi stessi non siamo ancora all’altezza del ruolo di genitore nella maniera convenzionale che ci viene imposta. Complimenti Mattia anche se, visto quello cui ci hai abituati, non avevo alcun dubbio della qualità che avrei trovato leggendo un tuo racconto.