
La Terra-Mercurio e il Germoglio di Soia
Serie: L'Inguaribile Piaga che è il Vivere
- Episodio 1: La Terra-Mercurio e il Germoglio di Soia
- Episodio 2: Intermezzo Prima del Vuoto
- Episodio 3: Misere Riflessioni d’una Donna
STAGIONE 1
Ti guardavo mentre ti infilavi quell’ago nella vena, nel tuo braccio candido, segnato da quei puntini rosei sparsi qua e là sulla tua pelle nivea e mi venne voglia di baciarti, posare le mie labbra su quei segni che condividevamo. Ti lasciasti scappare un suono gutturale dalla gola, come un gemito, un lamento che trasformatosi in formicolio ti prendeva le spalle, propagandosi pian piano per tutte le braccia. Appoggiasti la testa sullo schienale della poltrona, gli occhi chiusi, l’espressione sognante. Allungai allora le braccia verso di te, accostando le mani al tuo capo e apristi gli occhi come per guardarmi in tutta la mia indecenza, in tutta la mia immoralità, come un peccato fatto persona; mi sorridesti.
“Ti amo.” Le tue pupille larghe, grandi, rotonde mi guardavano sotto le tue palpebre socchiuse, lucide. Mi accarezzasti il volto con la mano sinistra, mentre l’altra poggiava la siringa vuota sul tavolo di vetro di fronte al divano. Sentivo la testa leggera, come se dovesse staccarsi dal mio collo per volarsene via chissà dove, lasciare il mio corpo per andarsene in quel mondo che lei sola conosceva, che agli altri non poteva svelare; non voleva, non l’avrebbe mai fatto. Forse per gelosia, forse per provare l’ebrezza di custodire il segreto, non l’avrei mai saputo.
“Ti amo.” Un sussurro stavolta, vicino alle mie labbra, riuscivo a sentire il tuo respiro caldo mentre lasciava la tua bocca, lo respiravo, scivolava giù per la mia gola, riempiva i miei polmoni insieme al fumo della sigaretta che avevo lasciato a metà, abbandonata nel posacenere mentre bruciava quel poco che le rimaneva.
Poi, un bacio, un bacio volgare, stupendo; sentivo la tua lingua sulle mie labbra, calda, oscena mentre toccava la mia, come un serpente che ti sale lungo la schiena, silenzioso, affascinante. Sentivo le tue mani attorno alla mia vita, calde, stringendomi a te, le tue dita lunghe sprofondavano nei miei fianchi, sotto la mia camicia ormai per metà sbottonata. Mi scivolò giù dalla spalla, come un lenzuolo di seta, quel cotone fino, sottile, che a malapena mi copriva il seno, lasciandolo nudo sotto il tuo sguardo.
Mi sentivo volare lontano, su delle ali che non avevo, in un cielo verde, dove gli uccelli nuotavano e sotto il quale la terra sembrava fluida, quasi mercurio. Come un termometro, pensai, e risi. Vedevo le mucche dormire sugli alberi, mangiucchiare qualche foglia ogni tanto quando si svegliavano in preda ad una fame altrettanto pigra. Camminavo sulle mani, la mia schiena ricurva in una mezza luna quasi perfetta, sotto i miei palmi le nuvole si allineavano una dopo l’altra, in una sorta di strada nel firmamento.
Sentivo le tue labbra sul mio collo, sulla mia spalla, i tuoi denti nelle mie carni, aguzzi, bellissimi. Lasciai scappare un gemito, sottile, quasi inudibile, ma tu lo sentisti comunque. Ti presi il volto tra le mani, guardandoti per un attimo che sembrò durare soltanto pochi secondi (e forse così fu, non c’era modo di scoprirlo), prima di lasciarti sprofondare di nuovo nel mio seno, come un bimbo senza quella sua tipica innocenza, un uomo affamato, una fame che viene dal profondo, dalle viscere della sua anima, del suo essere uomo.
“Ti amo, Hikari.” Eppure nulla di ciò che dicevi era vero, non lo è mai stato, non ti credevo. Perché era la roba che ti scorreva nel sangue a parlare, falsa, bugiarda come nient’altro nella tua vita. Tu che sei troppo tenero per sopravvivere in questo mondo di tossici, tu che ti svegli ogni mattina alle sei per andare in ufficio a lavorare, vestito con la tua giacca blu e la tua cravatta celeste. “Quale preferisci?” Mi ricordo quel giorno come se non fosse passato un istante, quella tua domanda mentre mi porgevi quelle due cravatte così diverse. Allora mi sembrasti un bambino, mentre mi chiedevi una cosa così banale, a me che di cravatte non me ne intendo, che a differenza tua vivo di ramen istantanei e di piatti del conbini.
Ti sfilai quella tua cravatta dal collo, lasciandola cadere a fianco della poltrona su cui sedevamo e mentre la sentivo scivolare tra le dita non riuscii a fare a meno di pensare che forse non fosse solo la roba a parlare, che forse mi amavi davvero. Che forse non riuscivi a fare a meno di ripetermelo ogni volta perché in fondo al tuo animo per bene c’era qualcosa di veritiero, umile e piccolo, un germoglio di soia appena nato. Troppo piccolo per farci un’insalata, pensavo, troppo buono per schiacciarlo sotto ai denti come si fa con i lamponi maturi, dolci, di quel colore che piaceva tanto a mia madre.
E poi volavo di nuovo, in quel cielo verde mela, sopra quella terra che mi sembrava mercurio, sopra le mucche sugli alberi, camminando sulle nuvole. Ti vidi lì, immobile, sorridente, un germoglio di soia; eppure, allo stesso tempo eri proprio tu, quel germoglio di soia, quella piantina che mi sarebbe tanto piaciuto mangiare, divorare senza lasciarne traccia in quel cielo in cui vivevamo soltanto noi.
Ti sentivo ridere, un riso felice, spensierato mentre appoggavi la tua fronte sulla mia spalla, gli occhi ancora lucidi.
“Sei bellissima” mi dicesti, con quel tuo sorriso affezionato, lo sguardo estasiato.
“Scemo” e risi anch’io, in preda ad un’euforia sconosciuta, così familiare e allo stesso tempo mai vista; perché ogni volta è diverso, il cielo in cui ci ritroviamo, gli animali che vivono sotto di noi, gli uccelli che nuotano, la terra-mercurio.
Eppure tu rimani sempre il mio piccolo germoglio di soia, minuscolo e bello come nient’altro nella mia vita. E forse era ancora la roba a parlare, forse non ero io, ma non me ne importava, non mentre facevamo l’amore, non mentre facevamo queste idiozie insieme.
Erano le tre quando mi svegliai, eppure fuori sembrava troppo chiaro, illuminato dai grattacieli, dagli schermi pubblicitari. Le stelle non si vedevano più, mi accorsi; da quanto tempo non guardavo le stelle? Troppo. Decisamente. Sentii l’acqua del lavabo, ovattata, rinchiusa dietro alla porta del bagno e mi chiesi cosa ci facevi sveglio a quell’ora. Poi, il profumo di omuraisu, di zuppa di miso. Mi lasciai cadere nuovamente sul divano, chiudendo gli occhi e mi resi conto improvvisamente di essere stanca. Una stanchezza all’interno delle ossa, del mio stesso scheletro, una stanchezza che sentivo in ogni battito del cuore, costante, lenta.
Non mi accorsi quando uscisti dal bagno, non mi accorsi quando ti avvicinasti al divano, silenzioso, sorridente. E non riuscii a fare a meno di tentare di immaginare quello che provavi, di chiedermi se anche tu condividessi quella mia stessa stanchezza.
“Hai fame?” mi chiedesti sedendoti, accarezzandomi i capelli con una tenerezza che non riuscivo a non amare. Alzai lo sguardo verso di te, la tua figura sottile, minuta.
Non lo so, ti avrei voluto dire, ma in quell’istante non avevo più voce, le labbra socchiuse in un vano tentativo di risponderti. Allungai le braccia verso di te, verso il tuo volto, le tue guance piene e tu, anima buona, mi prendesti la mano, accostandola alla tua pelle perfetta, baciando il mio palmo con la dolcezza di un amante.
Ed improvvisamente ebbi paura, paura di cadere, sprofondare in quella terra-mercurio che mi piaceva tanto guardare dall’alto, annegare in quei tuoi occhi color delle castagne.
“Voglio lasciare Tokyo.” Improvviso, come il suono di una lama che attraversa l’aria.
Mi guardasti perplesso, sorpreso da quelle mie parole. Eppure non dicesti niente mentre rimuginavi su quella frase, fluttuante nell’aria, dalle linee dure, spezzate.
“Dimmi, Megumi.” E tu mi guardavi, mi guardavi con quei tuoi occhi pieni d’amore, un amore profondo, semplice e privo di complicazioni, un amore che, mi pareva, non potesse esistere. “Sono pazza, vero?”
Un respiro. Troppo lungo, troppo stanco. Gli effetti della droga erano svaniti, e lo sentivamo entrambi; quel tenue dolore all’interno di ogni dito. Un dolore persistente, incessante, a tratti intenso, a tratti fioco.
“No.” Appoggiasti la fronte contro la mia, gli occhi socchiusi per poi riaprirli di nuovo; ed erano bellissimi, come te. “Non sei pazza, per niente.”
Improvvisamente, ebbi voglia di piangere.
Piangere per quel dolore, piangere per quel tuo volermi bene, piangere per te, per il tuo animo puro, per quell’animo che avevo corrotto, che avevo trascinato con me in questo buco di mondo. Un mondo che non perdona niente ma ammette tutto, un mondo che ti risucchia al suo interno, confinandoti in esso, intrappolandoti in un ciclo di chiedere e ricevere.
Ma forse quel che chiediamo non lo riceviamo mai, in fondo, nel vero del nostro essere, rimaniamo insaziati per quanto continuiamo a mangiare, per quanto continuiamo a desiderare, seppure raggiungiamo quel mondo onirico. Perché in questo buco di mondo si fa finta di sognare, costruiamo dei sogni falsi, inverosimili, per poi frantumarli al nostro ‘risveglio’ (anch’esso bugiardo, finto) e soffrirne fino a morirne.
Come una ferita inguaribile, un coltello conficcato nel petto, lacerandone le carni; fino al dissanguamento, fino agli ultimi attimi di vita prima di finire in quel limbo caldo, morbido che ci avvolge, ci stringe nelle sue spire ed infine lasciamo questo mondo di pazzi, questo mondo in cui noi stessi ci siamo gettati.
Serie: L'Inguaribile Piaga che è il Vivere
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Con estrema sensibilità, delicatezza e dolcezza poni l’accento sulla sofferenza, la solitudine, la fragilità e il dolore.
La vita pulsa nella tua opera affrontando le ombre con parole musicali capaci di catturare le emozioni più intime e di portarle al loro punto più alto……
Sai bene come parlare di droga e dei suoi abusi, non facile. Mi ha molto affascinato questo scritto, veramente! Felice di poter leggere così tanta arte. Grazie
Grazie a te che messo da parte il tuo tempo per leggerlo!
Mi stupisce non poco la tua padronanza con la lingua italiana, sei da molto qui?
Nonostante abbia passato la maggior parte della mia infanzia all’estero, mia madre è italiana; è stata proprio lei ad introdurmi al mondo dei libri e da lì è nata la passione per la scrittura (pur non sapendo praticamente nulla della grammatica XP).
Profondo, commovente, bellissimo!
L’amore che lega i due personaggi è tangibile, si può toccare. Ed è vero.
Anche la malinconia, che si avverte fin dalle prime righe, quando i due ragazzi assumono la sostanza.
Complimenti 😉
Grazie mille! È il mio primo scritto che faccio leggere a persone che non siamo miei familiari e non so veramente cosa dire! Grazie davvero per aver letto ^-^
Se dovessi pubblicarne altri, li leggerò di sicuro 😉