
La voce di una sirena colma di pietà pt.2
Serie: Personalissimo buio
- Episodio 1: Accordi
- Episodio 2: Distributori di senso di colpa
- Episodio 3: La voce di una sirena colma di pietà pt.1
- Episodio 4: La voce di una sirena colma di pietà pt.2
- Episodio 5: La voce di una sirena colma di pietà pt.3 (FINALE)
- Episodio 6: Quel posto che cresce all’incontrario
STAGIONE 1
«Sto sognando?».
«Forse…».
«Cosa cazzo significa? È un sogno o no?».
«Stai morendo».
Un tuffo al cuore. Stava morendo? Come poteva essere vero, se era qui? Era in clinica, stava chiacchierando con Gabe Fustaine che suonava la chitarra, nel cuore della notte. Una clinica svizzera.
«Se è per questo, poco fa eri al Bifrǫst nel Biellese…».
«Tu come fai a…?».
«Senti, sei un ragazzo sveglio. Arrivaci».
«Mi sto immaginando tutto? Nulla di questo è reale?».
«Allora, vuoi fare una diatriba cinico-stoica su che cosa è reale e che cosa no? Si può fare», fece per appoggiare la chitarra. Sporse il viso in avanti e lo fissò negli occhi da vicino. Sentiva la puzza delle sigarette mescolata al suo respiro. Vedeva le goccioline di sudore sulla sua fronte rugosa. Sembrava tutto assolutamente vero. Gabe riprese a suonare, rilassato: «ma io preferisco continuare a suonare. Questo pezzo lo abbiamo tirato fuori insieme quella sera. Era carino, no? Semplice. Pulito. Due accordi. Però è bello. Sincero».
«Hai detto che sto morendo».
«Sì, sei… da quelle parti. Sei sulla strada, diciamo. Magari poi non muori…».
«Per favore. Sto impazzendo. Sento un groppo in gola. Sento lo stomaco che si attorciglia. Basta indovinelli. Ho bisogno di capire».
«Va bene, ti faccio qualche domanda, allora: ti ricordi che data è oggi?».
Alex scosse la testa, ammutolito.
«Qual è l’ultima cosa che hai letto? Intendo, testo stampato, roba su un monitor, sul cellulare… Toh, ricordi l’ultima volta che hai letto che ore erano?».
«No…».
«Tu sei un mio fan, giusto? Sì. Ti risulta che io sappia una parola di Italiano?»
Alex scosse la testa stringendo gli occhi e girandola verso il pavimento.
«Bravo. Che lingua stiamo parlando adesso?».
«Che cazzo ne so… Non ha importanza. Comunque ci capiremmo…».
«Okay, adesso guarda l’orologio che è appeso al muro. È analogico. Guardalo bene e dimmi che ore sono», disse questo indicando col pollice sopra la spalla sinistra, non alzò lo sguardo dalla chitarra neanche per un momento.
Alex, timoroso, gettò lo sguardo sull’orologio, un oggetto tondo, di plastica nera. Noiosamente comune. L’epitome del concetto di “orologio da muro”. Si sforzò a riconoscerne il bordo, il quadrante, le lancette, i numeri, eppure… Non riusciva a leggere nulla. Era tutto impastato, non si capiva cosa fosse plastica, cosa vetro, cosa metallo. Le lancette erano gommose, tremolanti, e si muovevano un po’ in avanti ed un po’ indietro.
Trasse un profondo respiro.
La paura era ovunque, era perso. Non aveva nessun riferimento nel mondo esterno.
Cercò appigli in quello interiore. La respirazione si calmò. Tentò di accettare quella situazione assurda. Trovò il coraggio di farlo. Trovò un centro.
«Una specie di sogno».
«Una specie…».
«Non ci siamo mai incontrati? Sei un parto della mia immaginazione?».
«Oh no, tu in clinica ci sei stato. Mi hai incontrato. Anche Sarah. E, ti scombussolerò un altro po’: anche la festa c’è stata, al Bifrǫst. Diciamo che fino a che Sarah non è venuta a trovarti lì, fino al nuovo giro di birre al bancone, le cose che ti ricordi sono effettivamente successe».
«Solo che non mi ricordo il come, il quando…».
«Bingo. Te l’ho detto che sei uno sveglio».
«Quindi ho superato la mia dipendenza. Qualcosa di buono l’ho fatto».
«Certo che sì. Io non avevo dubbi che ce l’avresti fatta».
«Però poi ho preso la macchina, per tornare a casa…».
«Eh…», qui Gabe, pur continuando a suonare, sembrò farsi all’improvviso profondamente contrito. Assunse un’espressione di dolore e di pena, era sinceramente triste. Riprese, la voce rotta: «bravo. Ora ricordi, giusto?».
«Io ero sobrio», Alex era glaciale.
«Oh, tu sì. Non eri così sobrio da anni, Alex…» quasi piangendo.
«Quell’altro però no, vero?».
Gabe scosse forte la testa, in silenzio. Gli occhi stretti. Si levò gli occhiali da sole, e si terse le lacrime.
«Ma sta bene?».
«Sì… Quel figlio di puttana sta bene».
Un flash ed Alex era nella sua auto. Era felice. Girava il volante e faceva le curve con calma. La mano ed il piede sicuri, percorreva i tornanti della provinciale fatta un milione di volte rilassato e pieno della gioia sincera di una serata passata con persone che si volevano bene.
Era tardi, ma la notte era serena, limpida. I suoi fari illuminavano le curve nella strada di montagna, lui era vigile e tutto era a posto.
Domani sarebbe stato un giorno nuovo, felice. Pieno di promesse e di possibilità. Sentiva che qualsiasi sfida gli sarebbe toccata, l’avrebbe accettata ed affrontata a viso aperto, era sicuro di sé ed appagato.
Arrivò ad un incrocio, sceso da una collina, aveva la precedenza e non c’era il semaforo, ma fu preso in pieno da un’auto sulla fiancata destra.
Luci spente.
«Ora ricordo. Ma tu? E Sarah?».
«Forse avevi bisogno di noi. Per mettere le cose in fila. Per farti un’idea di quello che era successo davvero».
«Ma quando si muore, quindi, succede questa roba? Un mescolone di ricordi e fantasie, fino ad una realizzazione inquietante? Subito prima di scomparire nel nulla? O di vedere Dio?».
«Alex, io non lo so. Però credo che tu te la stia cavando meglio di tanti altri…».
«Che vuoi dire?».
«Che secondo me altri non riescono a creare un mondo intero, compresso in un non-luogo senza spazio e tempo, e riempirlo di sentimenti, persone, momenti, gioie, dolori… Buone conversazioni. E che se poi tutto questo ti aiuta a capirci qualcosa… A trovare… Pace, o una cosa che ci somigli. Una realizzazione. Una comprensione… Ben venga, no? Secondo me, sei una persona fuori dal comune. Sei una bella persona».
«E che cosa me ne faccio?».
«Tristemente, un cazzo di niente».
Risero, mestamente.
«Forse hai ragione. Però se mi dici che sono una bella persona è scontato: è perché tu sei una proiezione di me. Sei “di parte”».
«Non ha importanza, Alex. Credimi, tu puoi avere un impatto positivo sulla vita della gente. Anche sulla tua».
«Mi piacerebbe che fosse vero. Ma è troppo tardi per questo, no?».
«Forse».
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