La volta

Tornai a casa. Læssi e…  rilessi i nomi appiccicati sulle cassette della posta. Erano i nomi dei condòmini che non conoscevo ancora ma che in quello stabile ci abitavano, e stabilmente. Io, invece, ci abitavo da poco.

L’appartamento al secondo piano, ristrutturato da poco ma non per poco, aspettava il mio rientro come un corazziere: immobile. I mobili, che grazie a me avevano trovato casa in quell’immobile, non erano da meno: anch’essi immobili; ogni minimo movimento poteva destare sospetto, anche quello di una sedia a dondolo. 

Lessi i nomi per averne memoria, per me erano tutti nomi nuovi, tutti nomi strani. Poi capii che in verità quei nomi erano solo dei cognomi, cognomi dai nomi altisonanti come i campanelli al loro fianco, alti, e se premuti, sonanti. 

Nomi strani e nomi stranieri.

Nomi strani di ieri e nomi stranieri di oggi. 

Nomi che vorrei associare ad un volto.

Nomi dilungo oltre. 

Nomi sembra il caso.

Sotto una volta ricordo la volta quando mi voltai e vidi una donna scura in volto. Era la prima volta che la vidi in volto, avvolta nel suo cappotto di angora, ancora oggi ne ho ricordo. Nella lunga sciarpa aveva il collo più volte avvinto, io perso ero già di lei che, con fare disinvolto, procedeva sotto quella stessa volta. Rivolto lo sguardo verso il mio viso o volto, lei mi guardò. Io non abbassai lo sguardo, la guardai mentre lei mi guardava. Ci guardammo all’unisono: la nostra era una perfetta identità di vedute.

«Entra con me?» Le chiesi con garbo.

«Direi di sì» rispose senza indugio.

Aprii la porta. Invero era un grande portone in stile liberty, dalle inferriate in ferro battuto con riccioli e decorazioni floreali a protezione delle lastre in vetro temperato finemente decorate. Lo spinsi con forza, a fatica, tant’era pesante, sicuramente aveva bisogno di un po’ d’olio, come le mie povere ossa, tant’è che cigolammo entrambi. Con gesto galante la invitai ad entrare. Lei ringraziò per educazione. 

«Sono il nuovo condomino del secondo piano, mi chiamo P.,  Fabius P.»   Mi presentai come un agente segreto di Sua Maestà alla luce del sole, invero sotto quella poca luce di una vecchia lampada ad incandescenza. Nonostante gli anni non facessoro sconti a nessuno – invecchiare è normale, si chiama senescenza -, il mio fisico non più giovane era ancora prestante, ero alto, slanciato e di bella presenza. Ero, insomma, ancora presentabile, direi un tipo, non proprio un mito, ancora. Oggi, ahimè, non si fanno più le presentazioni neanche alla TV, chi le fa, le fa per tutt’altro senso, le intende come raccomandazioni.

Lei oltrepassò il portone, era più che accettabile, direi passabile, per non dire che era veramente “bbona”. Al diavolo la poesia! Pensai. I miei occhi son maschi e non invecchiano mai.

Sotto la luce non era più scura in volto, era luminosa perché illuminata da un’insegna luminescente che le illuminava d’immenso il volto. E nei suoi occhi, profondi come gli abissi delle Marianne, mi ci immersi. Amici non eravamo ancora. Come due mici ci guardammo immobili: io feci le fusa, lei rimase confusa. 

Salimmo i gradini che ci seperavano dall’ascensore.  Mi sembrarono pochi, ne avrei voluto tanti, volevo che il tempo durasse più a lungo per allontanare il momento della nostra separazione, nessun grado di separazione.

«Sale con me?» le chiesi con fare dolce.

«Al settimo piano, grazie» rispose lei senza esitazione.

Mi piacque subito la sua voce, dal tono gentile ma forte. Forte come era inebriante il suo profumo in quell’ambiente stretto ma perfetto per un incontro ravvicinato del terzo tipo. Lei era la terza tipa che incontravo quel giorno. Io volavo alto, tre metri sopra il cielo, non era fantascienza, era tutto vero.

Lei era in carne ed ossa. Mi soffermai, lo confesso, più sulla carne che sulle sue ossa. Senza ossa forti la carne è debole, si sa. 

Con un’occhiata veloce la valutai così su due piedi. Le diedi dieci in ogni sua parte; non c’è da meravigliarsi, la mia valutazione era di parte. Non era di parte lesa ma, anche se lo fosse, vedendo ondeggiare le sue anche sinuose non avrei sporto denuncia. Era promossa a pieni voti. 

Mia promessa sposa la vorrei; spero non pronunci i voti sposando Dio diventando una sorella con il velo avvolto al viso. No, non è giusto nasconderle quel sorriso che le illuminava il volto. Non rinchiuderla in una cella, ti prego o Signore.

Senza alcun intoppo l’ascensore si fermò al settimo piano, non era il mio piano ma io ero al settimo cielo. Era stato bello salire con lei, questo era il mio piano. 

«Spero di vederla domani» le dissi io. Poi mi accomiatai salutandola con un semplice gesto della mano.

«Lo spero anch’io» sorrise lei con quegli occhi immensi, mentre si allontanava piano piano. La porta tra di noi si chiuse senza alcun preavviso, di scatto.

Non la vidi più. L’aspettai per ore e giorni sotto quella volta nella speranza di rivederla ancora, ancora una volta almeno. 

Rientrai. Mi guardai davanti al grande specchio ovale appeso nell’atrio dell’ingresso e riflettei, riflettei per qualche lungo istante; guardandomi riflesso non sembravo io: “Oh mio Dio!” Esclamai. Ero stravolto in volto.

“Maledetta primavera!” Chiusi gli occhi e pensai a lei.

Maledetta l’ora che l’incontrai sotto quella volta. 

Fu così che rincasai disperato, in preda allo sconforto e scuro in volto. La mia dolce preda era fuggita via come una furtiva lagrima dalle mie gote scarne. Mi parve di morire, come Nemorino nell’Elisir d’amore.

La mia era stata una pia illusione. Forse è meglio così.

Pregherò padre Pio come una volta pregavo Dio.

Chissà se grazie all’inter-cessione dei Santi, almeno di quelli in maglia nerazzurra, un giorno non me la ritrovi davanti?

Non seppi niente più di lei, sparì nel nulla. 

Nero di seppia era il mio umore.

Lei svanì in punta di piedi, per non far rumore.

Il suo nome non lo seppi mai, di certo non era Raffaella.

Come la Carrà era bella; dimenticarla non mi fu possibile e neanche far l’amore con lei da Trieste in giù.

Era stato solo un amore platonico, di quelli che ti fanno sentire male da farti sembrar catatonico.

Miscelai Vodka con acqua tonica, sorseggiai quel drink per sentirmi meglio, per sentirmi tonico.

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Con mio grande rammarico la mia storia non ebbe più alcun risvolto. 

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Discussioni

  1. “Tornai a casa. Læssi e… rilessi i nomi appiccicati sulle cassette della posta.”
    Quale altro inizio arguto e divertente per un racconto giocoso e ben costruito che offre un po’ di svago dai tanti pensieri e drammi quotidiani.
    Grazie Fabius P. io Manca, tu manchi, quando ti assenti.

    1. È un libriCK che avevo scritto anni fa e che ho rielaborato integrandolo con nuovi giochi di parole, doppi sensi, ironia, qualche rima, un tocco di poesia e di follia dandogli una forma definitiva nel limite delle 1.000 parole esatte. Lo considero forse il mio migliore lavoro, la Summa di Fabius P. Grazie di averlo riletto e buona presentazione, mancano pochi secondi all’inizio, tutti pendono dalle tue labbra: e vai!