
L’aquilone
Serie: La donna con l'aquilone
- Episodio 1: La caduta
- Episodio 2: Una nuova normalità
- Episodio 3: L’aquilone
STAGIONE 1
Un boato arrivò da fuori. Le finestre vibrarono e la bambina per lo spavento si avvinghiò alla gamba della mamma. Aida riprese il controllo di sé. Prese la figlia in braccio e corse nelle scale. Dalla strada giungevano urla e il suono degli allarmi delle auto. Salì i gradini a due a due e svelta arrivò nella terrazza del palazzo. I talebani dovevano essere rimasti sorpresi da quel boato, interrompendo la loro missione per capire cosa fosse successo. A ben ragione. Aida vide alzarsi una colonna di fumo dall’aeroporto. Un attentato. Ne era certa. Negli anni aveva visto tanti attentati, autobomba o kamikaze, il risultato era uguale.
«Mamma cosa succede?» chiese la bambina.
Aida prese la mano della figlia e la guidò rapidamente verso le scale antincendio.
«Tieni la mia mano sempre forte, hai capito?»
La bambina annuì spaventata e strinse fortissimo la mano della madre.
Scesero le scale velocemente. Il suono metallico dei loro passi veniva sovrastato dalle sirene delle ambulanze. Giunta a terra, Aida si alzò la kefiah fin sugli occhi e si diresse verso l’aeroporto. Due chilometri. Soltanto due chilometri. Teneva la mano della figlia stretta alla sua, le dita incrociate in un nodo impossibile da sciogliere. Le strade erano piene di curiosi che riprendevano con i cellulari. Aida attraversò quella folla svelta e silenziosa, un’ombra leggera che fuggiva l’oscura notte inseguendo la debole luce del tramonto.
I check-point dei talebani erano occupati con le ambulanze e i mezzi di soccorsi. Aida passò tra i vicoli bui non vista. Vedeva le luci dell’aeroporto, i fari dei militari americani puntati sulla folla di disperati in fuga. Sentì un aereo decollare. Era vicina. Dietro di lei un’altra esplosione. Un altro attentato, questa volta in città. Le persone attorno a lei iniziarono a correre, terrorizzate. La bambina strinse con più forza la mano della madre, ma Aida non si voltò indietro. Approfittò di quel caos per passare anche l’ultimo check-point talebano. Era dentro. Si fece largo tra la ressa per avvicinarsi al perimetro dell’aeroporto. Spintoni, urla, la calca era impressionante. Prese la bambina in braccio e provò ad avanzare. Madre e figlia sembravano una piccola barchetta alla deriva in quell’oceano di disperazione. Passare era impossibile. Tra le urla e le mani alzate degli afghani che mostravano i documenti vide qualche soldato americano. Era troppo lontano, non l’avrebbe mai sentita.
«Sono americana! Sono americana!» urlò con tutto il fiato in gola.
Il soldato a qualche metro da lei, sopra la barricata non la sentì. Arrivarono altri soldati. Uno imbracciò la sua arma. Era spaventato. Guardavano la folla in cerca di qualcosa. Altri kamikaze? Uno sparo in aria. La folla si piegò impaurita, urla e pianti di bambini. Un americano bloccò il soldato che aveva sparato e lo mandò via. Aida stringeva la figlia a sé, così forte da essere un corpo solo. Un’auto frenò qualche metro dietro loro. Urla, spari in aria. I talebani. La folla si disperse. Aida si ritrovò a correre, non sapeva nemmeno lei dove, seguiva quelli davanti a lei. Costeggiarono il perimetro dell’aeroporto. I soldati li guardavano, fermi e immobili nelle loro postazioni, impotenti. Sfinita, Aida si accasciò a terra, appoggiandosi ad un blocco di cemento.
La figlia aveva smesso di piangere. I suoi occhi erano vuoti, disillusi, persi in quell’oscurità.
Il sole sorse senza attenuare la tensione. La ressa agli ingressi tornò più forte e disperata della sera precedente. Aida spintonò fino alla rete metallica. I soldati sopra di lei lanciavano bottiglie d’acqua e viveri avvolti nella carta stagnola. Solo allora si accorse della sete. Le labbra di sua figlia erano secche, ma la bambina non protestava, chiusa nel suo mutismo e in quegli occhi spenti. Stava fallendo. I talebani si stavano prendendo sua figlia. La rabbia montò veloce.
«Sono americana!» urlò forte.
«Americana!» gridò ancora, ferma, decisa, prepotente.
Il soldato la notò.
«Americana? C’è una donna americana?» urlò.
«Io!» si sbracciò Aida.
«Fate passare quella donna!» urlò il marine dalla barricata.
Aida si fece strada. Spintonò con tutte le sue forze e finalmente raggiunse il muro di sacchi di sabbia.
«Ha i documenti?» le urlò il soldato.
«Nello zaino!» rispose Aida, poggiò la bambina a terra che si avvinghiò alla madre e Aida fece per prendere lo zaino.
«Ferma non si muova!» le intimò il militare puntando il fucile contro di lei.
La bambina conficcò le sue unghie nella carne della madre.
«Non sono un kamikaze!» urlò Aida alzando lentamente le braccia. Attorno a lei si creò il vuoto. Il soldato continuava a puntare l’arma contro di lei.
«Si allontani!» le intimò.
Aida scosse la testa. Non era possibile. Era ad un passo dalla salvezza. Non poteva arrendersi ora.
«Prendete mia figlia!» urlò al soldato.
La bambina strinse ancora più forte la gamba della madre.
«Tesoro ascolta…tesoro ascolta.»
La bambina scuoteva la testa, terrorizzata.
Aida aprì la tasca con i passaporti e mise in mano alla figlia il suo passaporto americano.
«Ascoltami, adesso, tu andrai con questi soldati, ti porteranno da papà, io ti raggiungerò appena potrò.»
«No!» urlò la bambina.
Aida guardò la figlia. Lacrime calde le rigarono il volto impolverato. Si tolse l’hijab. Voleva che sua figlia si ricordasse del suo volto.
«Hope, amore mio, ti ricordi della promessa che mi hai fatto? Sarai coraggiosa?»
La bambina annuì tra le lacrime.
Aida abbracciò la figlia.
Dietro di loro passi pesanti. Aida li riconobbe ma non aveva paura. L’americano sopra di lei urlò qualcosa. Altri soldati accorsero. Aida si tolse lo zaino lentamente e lo lasciò cadere a terra. Poi prese in braccio la bambina.
«Tenete mia figlia!»
«Mamma no!»
Il soldato guardava impietrito, non sapeva cosa fare.
«Vi prego! Salvate mia figlia!»
Mani leggere, mani liberatorie, mani di speranza presero la bambina.
Hope oltrepassò la barricata. Era dentro. Un soldato la strinse in braccio. Aida finalmente trovò pace. Hope era salva. La bambina si sbracciava mentre il soldato la portava via, dentro l’aeroporto, al sicuro. Aida alzò una mano per salutarla e le sorrise.
Quando la bambina sparì alla sua vista, si girò. I tre talebani che le davano la caccia l’avevano trovata.
«Sporca puttana dell’infedele» le disse il capo del trio.
Aida sorrise al suo boia, non le importava. Presto un aereo avrebbe portato Hope in Occidente. Sarebbe cresciuta libera. I talebani non avrebbero vinto.
I due guerriglieri con la mimetica la presero per le braccia e la trascinarono via, lontano dagli occhi delle sentinelle americane.
La poggiarono contro un muro, il talebano senza mimetica tirò fuori la pistola e la puntò sulla tempia di Aida.
La donna alzò lo sguardo in cielo. Un aereo stava decollando tra le scie rosse dei flare antimissile. Sembravano degli aquiloni. Sorrise serena Aida, al ricordo del suo primo aquilone dopo la caduta del regime islamista. Si sentiva così libera, come in quel momento. Hope era salva, i talebani avevano perso.
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