L’ascensore

Serie: χαλαρά-l'arte del vivere lento


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Un incontro casuale tra due persone da vita ad una passione impossibile

Parigi

Un mese dopo

Mancava poco alla fine del mio turno, l’orario che brillava in verde sopra la cassa diceva tre minuti

Guardai la pila di magliette che avevo appena finito di piegare, in cotone, collezione primavera/estate, con sopra stampato a caratteri cubitali “Follow your dreams”.

E ‘sti cazzi.

Allo scattare delle 19:00 feci un cenno alla mia collega e corsi giù per le scale a recuperare la mia borsa, afferrai il telefono.

Lo schermo si illuminò, due nuovi messaggi.

Primo messaggio.

Laura: “Che minchia fai? Passi al ristorante dopo?”

Digitai una breve risposta: “Ti chiamo appena esco.”

Secondo messaggio.

Denis: “Coucou ma belle, ceniamo insieme settimana prossima?”

Alzai gli occhi al cielo ed eliminai il messaggio senza aprirlo, rimasi un attimo a fissare lo schermo sperando in un’altra notifica.

Niente.

Buttai il telefono nella borsa e risalii le scale.

A metà della rampa, entrò nel mio campo visivo la punta di uno stivale in cuoio nero. Alzai la testa e vidi poggiato sulla ringhiera il sogno erotico di tutte le commesse del negozio: il mio capo.

Il punto di congiunzione tra un bandito e un uomo d’affari, Xavier, 32 anni, vantava un passato come gigolò e come clochard, aveva vissuto in quattro paesi diversi e oggi dirigeva la grande boutique di moda a Saint Germain, nel centro di Parigi. Quel giorno portava dei lunghi jeans a zampa, una canotta bianca aderente che faceva risaltare la pelle ambrata, i capelli tirati indietro con la gelatina e gli immancabili stivali da cowboy in pelle nera.

Aggrottò le sopracciglia scure:

-Hai già finito?

– Si oggi esco prima.

-Ah e che fai stasera?

Perché vuoi chiedermi di uscire capo?

-Niente di che, forse mangio con un’amica.

-Va bene, a mercoledì allora.

Mi rivolse un ultima occhiata e girò sui tacchi schioccando le dita nervosamente.

Non avevo ancora deciso se mi stava simpatico o meno, ma aveva decisamente un bel culo.

Uscii dal negozio, che faceva angolo su una delle strade più affollate del centro. Il caldo secco mi investì togliendomi il respiro ma iniziai il mio slalom tra i tavoli delle brasseries. La fauna del VI arrondissement era piuttosto eterogenea, vi si poteva trovare l’afterwork della banca in giacca e cravatta o il bobo di trent’anni con la camicia hawaiana, comprata imperativamente in un negozio di seconda mano.

In ogni caso tutti bevevano del vin rosè.

Arrivai alla metro, mi pigiai tra la folla sudata e cercai di respirare con il naso contando le fermate che mi separavano da casa.

Lottai per districarmi dal groviglio di corpi e una volta fuori il mio telefono prese a squillare:

-Pronto.

-Eh, hai detto che mi chiamavi!

-Si scusa La, sono appena uscita dalla metro.

– Vabbè, passi al ristorante?-

Le mie finanze non erano esattamente floride in quel momento, ma non avevo voglia di tornare a casa.

– Si arrivo tra qualche minuto.

Il ristorante, non era un ristorante qualsiasi ma era il ristorante di Franco.

Franco approdò in Francia dalla Sicilia per amore e lì rimase. Senza amore però, o meglio, di amore ne aveva avuto tanto, da diverse donne, in tutti i modi, in tutte le posizioni, amava precisare. Se le pareti di questo posto potessero parlare…

Quella con il ristorante era la sua relazione più longeva, lo amava e sotto sotto credo amasse Parigi, anche se secondo lui i francesi erano tutti froci e le francesi tutte zoccole, ma con delle belle cosce.

Il politically correct non era il suo forte.

Arrivai e vidi proprio Franco, mani sui fianchi che discuteva animatamente con una ragazza:

-Non tu cumprend pas, moi…io… je fais la cucina avec passione pas le chichi, pas le cinema…Instagram… ça m’interesse pas!

Bravo Franco, deciso.

La ragazza fece un sorriso stirato, strinse la mano di Franco e si congedò facendo ondeggiare la chioma dorata.

In quel momento Franco mi vide:

– Ciao gioia, finito di lavorare?

-Ciao Franco, si adesso adesso, tutto ok con la bionda?

-Si ma questa viene a rompere le palle Instagram, Tikkitokki tuttecose ma che mi lasciassero tranquillo! Secondo te io a 58 anni ho tempo da perdere con ste minchiate? Con i futti futti, le foto, le piante…qua la gente viene per mangiare…

Annuii seria, non avevo voglia di discutere e lui soddisfatto tornò in cucina.

Presi posto nella terrazza leggermente pendente e poggiai la testa tra le mani strofinandomi gli occhi. Laura arrivò pochi minuti dopo lasciandosi cadere sulla sedia.

-Che caldo di merda, sono tutta appiccicosa ho lavorato in ciabatte, frega una sega. Che mangi?

Ordinammo due pizze e della coca cola.

Dopo qualche istante in silenzio, Laura alzò la testa dal piatto e con uno spicchio di pizza a mezz’aria chiese:

-Quindi…notizie?

-No, silenzio stampa.

-Vabbè lo sai, non ti puoi aspettare nulla, fa parte del gioco… no?

-Si…però… – Non conclusi la frase, non c’era un però.

Dopo qualche ora e un digestivo di troppo offerto da Franco ( non rompere le palle e bevi), sbadigliando decisi di tornare a casa.

Abitavo in uno dei quartieri più calmi e borghesi di Parigi, tra Trocadero e la Muette, quindi tornare la notte a piedi non era un problema. Le strade erano silenziose e gli unici sporadici incontri erano quelli con cagnolini di razza e padroni al seguito.

Per accedere al mio studio, che stava all’ottavo piano di un vecchio palazzo, bisognava entrare dalla porta di servizio, scendere le scale per le cantine, risalire un piano a piedi e poi prendere un piccolo ascensore. Questo era dotato di un meccanismo all’avanguardia: le porte si chiudevano a calci e spesso bisognava tenerle ferme con le mani e pregare.

La parte della preghiera era opzionale.

Ero rimasta bloccata al suo interno esattamente cinque volte.

Entrai nell’immobile e giunsi quindi nella scatola infernale, desiderando solo di togliermi i vestiti e svenire di fronte al ventilatore.

Uno scossone.

Ed ecco la rettifica: sei volte, non cinque.

L’ascensore si bloccò al quarto piano, dalla finestrella riuscivo a vedere solo cemento.

Ottimo.

Spinsi nuovamente il pulsante con il numero otto, a volte funzionava.

L’ascensore non si mosse.

Provai allora a suonare l’allarme ma nulla.

Presi il telefono, niente campo.

-Proviamo con i calci…- dissi a voce alta.

L’ascensore ballonzolò leggermente e una piccola fitta di panico mi punse lo stomaco.

-Aiuto! Il y a quelqu’un?!Je suis bloquée!

Diedi dei pugni alla porta continuando a gridare per almeno cinque minuti.

-Vaffanculo cazzomerda, città di merda, ascensore di merda!

Per quanto riguarda l’opzione preghiera ero convinta che se mi fossi dimostrata una fervente devota solo nel momento del bisogno, l’Altissimo mi avrebbe presa per un’opportunista e non volevo sprecare il mio bonus miracolo.

Mi voltai verso il piccolo specchio all’interno dell’ascensore e vidi il mio viso completamente stravolto, la frangia zuppa di sudore e il trucco a chiazze.

Mi tolsi le scarpe e mi accasciai per terra, cercando di non farmi prendere dal panico, qualcuno ad un certo punto sarebbe arrivato. Non sarei certo morta lì dentro.

Questo è il karma Lisa, te lo meriti.

Il karma…dal mio ritorno a Parigi mi ero detta più volte che il karma, strisciante, sarebbe arrivato e mi avrebbe punito, ma mai avrei pensato che mi avrebbe rinchiusa in un ascensore.

Il caldo diventava sempre più insopportabile e dall’esterno non giungeva nessun rumore.

Sbuffai e ripresi il telefono, magari lui mi stava chiamando proprio in quel momento.

Sapevo che in quei giorni non mi avrebbe scritto o telefonato, mi aveva avvertita, ma non potevo fare a meno di starci male. Quella notte in Grecia aveva scombussolato lo stato di pace ascetica che ero riuscita a creare.

Tutto era cambiato e non potevo farci nulla.

Avevo l’impressione che una bestia avesse deciso di fare del mio petto la sua tana e che passasse la giornata a farsi le unghie sulle pareti della mia cassa toracica.

Non è giusto

No, non era giusto per nessuno. Ne per me, ne per lui, ne per… non volevo pensarci. Era sbagliato sotto ogni punto di vista etico, morale, pratico.

Non era nemmeno giusto crepare in questo cazzo di ascensore però.

Diedi un calcio con rabbia alle porte e lasciai cadere la testa all’indietro.

Chiusi gli occhi e ripensai a come un mese prima, con tanta leggerezza, avessi venduto l’anima a Satana in persona.

Serie: χαλαρά-l'arte del vivere lento


Ti piace0 apprezzamentiPubblicato in Amore

Discussioni

  1. Ciao Eleonora, confermo l’ impressione positiva dei primi due episodi di questa serie. Le tue storie mi catturano: sanno di vero. I dialoghi sono credibili, sembrano autentici. Anche se non fosse, se ti fossi inventata tutto di sana pianta; complimenti per la tua inventiva e per lo stile di scrittura senza impacci. E poi Parigi, che dire? Parigi e` sempre Parigi, la citta` ideale per ambientare racconti d’ amore e liberta`.(Rivoluzioni e contestazioni infuocate a parte.) Come osservo` e disse un certo J. C. Badard, mio docente di psicobiologia: “in-paris”, nella nostra lingua sarda, significa insieme, come coppia, come amanti, fidanzati o altro.
    “J’ aime Paris au mois de mai” come cantava C. Aznavour.
    Aspetto il quarto episodio.