Lascio tutto per Baudelaire
1 Quasi da solo per Parigi
Parigi presenta troppa escursione tra vie troppo luminose e altre troppo scure. Un momento sei lì accecato nel boulevard davanti a una gioielleria di oggetti che non ti puoi permettere, sentendo sfilare profili sfumati e chiari profumi di donne che non ti puoi permettere.
Io ero lì per uno scopo, cercavo la succursale del giornale a cui ero stato inviato, scantonando tra vie grandi e piccole con una cartina topografica in mano, svolazzante, e gli occhi rossi per il vento, ormai volti all’indietro, disperavo di trovarla.
Era come un sogno, ora, pensando, risentivo mio padre. La scrittura è un lavoro sporco, diceva mio padre, che puzzava di benzina, anche la sera nella sua tuta grigia di benzinaio. Puzzava di ascelle. L’odore incontrollato di un maschio. Ora ero in terra straniera, avrebbe detto, lui, che era un patriota forte.
Mi fermai un attimo per prendere fiato. Magari avrei provato a chiedere informazioni a un passante, ma non sembrava esserci nessuno che camminasse abbastanza lentamente. Vidi la scritta di una pubblicità: “Amare è essere ossessionati da qualcosa o da qualcuno”. Osservai la brutta torre ferrosa e la bruma.
Parigi è il centro d’Europa, l’ultimo impero, pensai, non so perché. Una piuma fluttuò nell’aria, lenta come in un pollaio o in un materasso. Vidi una donna e le chiesi subito dov’è il giornale tal dei tali. Mostrò di non saperlo, la invitai per un caffè. Disse di sì. Fu l’unica vibrazione dopo due giorni di giri a vuoto per la città.
Era bella, ben proporzionata, rotonda ma soda, omerica, aveva i capelli biondi ondulati, ricci a seconda del vento, mi sembrava, gli occhi azzurri non erano freddi. Le chiesi il nome. Sylvie.
Parigi dava ispirazione. Cosa faceva? Una tesi in storia dell’arte, all’università. Bingo, pensai. Forse può sapere qualcosa che mi serve.
Sotto le luci morbide del bar la vedevo meglio, si poteva definire una figura cristallina, apollinea direi.
Cominciammo a parlare dell’Italia e della Francia con naturalezza. Che l’argomento celasse qualcosa di più importante?
Il barista puliva il tavolo, rumorosamente, raschiando. Trovavo qua e là sul tavolo qualche piccolo capello dorato quando si alzò per andare via. Ci vediamo domani al Louvre, aveva detto, lasciandomi un biglietto.
Le cose a volte avvengono per caso o un concorrere di cause che sembra una coincidenza e così tutte le mattine cominciai ad andare per musei e pinacoteche anche poco conosciute o private.
2 Le mie velleità artistiche
Le mie velleità artistiche, come un fardello aspettavano nell’ombra, ed erano state sepolte perché non sapevo se avrei risaputo fare arte come una volta, non sapevo se c’era una ricetta riproducibile per fare arte, o fare arte era una cosa spontanea che arriva o non arriva, come l’amore. L’arte era un’ossessione come l’amore, ma come l’amore o c’era o non c’era. Prendevo tutto razionalmente, meditavo, ragionavo spesso, ma quasi per compartimenti stagni, qualcuno disse al mio primo libro che ero senza emozioni nelle mie asserzioni, il che poteva essere vero, ma se avevo seppellito l’arte era giustamente perché i miei genitori mi avevano voluto artista ed io ero capzioso ma anche un semplice, estremamente semplice e spesso banale. Per me infatti l’arte arrivava dopo. Sono sicuro che Sylvie alla scrittura della tesi dava un grosso valore, quello di essere rappresentata degnamente in società, di essere giustamente premiata e valorizzata, di trovare un posto nel mondo. Per me invece l’arte veniva all’ultimo posto, mi bastavano i piedi al caldo o come disse un poeta russo un tozzo di pane, un bicchiere di latte e questo cielo e queste nuvole, e dell’arte me ne potevo anche infischiare.
In effetti avevo rinunciato spesso a competere sia perché mi sentivo superiore, sia per la noia di dover dimostrare le mie qualità (due motivazioni quasi opposte). Io ero troppo puro o purista. Come un primitivo che usava un ottimo fuoco (tutti i fuochi, in teoria, sono simili) ma non aveva cucina. Il mio fuoco in sostanza andava sprecato.
In quel momento capii che ero a Parigi per trovare inspirazione, il lavoro per il giornale non c’entrava niente. Invece, avevo perso la fiducia da anni. Fiducia in cosa? In tutto.
Gli occhi rossi mi bruciavano. Amavo sempre più il buio, mi piaceva sostare dopo le visite alle pinacoteche, in qualche vicolo sconosciuto di Parigi, sotto una volta antica, in un androne, dove magari secoli prima avrei potuto sentire ruzzolare il vetro di una bottiglia dentro a cui avrei incontrato Baudelaire a darci calci. Lui non aveva pesi. Non è da me essere così romantico. Immaginando la trama della novella della Fanfarlo quasi senza accorgermene mi ritrovi davanti a un postribolo e un attimo dopo tra le braccia di una voluttuosa parigina. Era stato qualcosa di irreale e secco, ma era avvenuto veramente. Qui tra i profumi intensi e il buio del postribolo capii quanto mi sentivo simile al Baudelaire pre-salons, un ragazzo timido e vorace, fugace che andava per Parigi con le scarpe rotte anche nella neve, e che non voleva né sentiva il bisogno di far leggere a nessuno le sue poesie, e che però anche se non pubblicava nulla tutti consideravano già un grande artista (senza rendersene conto fu uno spartiacque della poesia moderna).
Comprai da un rigattiere un piccolo dizionarietto italiano-francese e iniziai a scrivere su un diario poesie in francese, non so che mi prendeva. Leggere e imparare a scrivere in francese diventò una magnifica ossessione che mi riportò a scrivere dopo tanti anni, ora solo in una lingua che non era la mia ero di nuovo capace a scrivere.
3 Un amico particolare
Un amico di vecchia data, di quelli che non vedi da una vita ma ci sono sempre per un consiglio e gli racconto tutta la storia di Parigi, di Sylvie, della prostituta e di Baudelaire. Aspetto una qualche illuminazione dalla sua saggezza. Dice che se la prostituta facesse l’attrice potrebbe essere benissimo una storia uscita dalla penna di Baudelaire e non credeva neanche potesse essermi successo davvero, né si immaginava che fossi a Parigi. Paolo ha scritto un romanzo di successo famoso e mediocre che si trova anche negli autogrill e che lui chiama la peggiore colpa della mia vita (o forse era il suo titolo?). Mi dice al telefono che mi capisce. Baudelaire era veramente un grande, si potrebbe morire per Baudelaire (lui lo farebbe, dice). Baudelaire a Parigi, colui che ha creato la poesia moderna pur standone fuori. Ci sarebbe anche Shakespeare, aggiunge, ma lui aveva un’anima grande, sì una grande persona piena di passioni e sicuramente di grande e brillante compagnia, ma era tutto passione, nessuno spirito, e inoltre era pure frocio, frocio ma non come Oscar Wilde. Perché Wilde non era proprio frocio, era quello che qua da noi si dice una checca sofisticatissima e inoltre era un artista anche della forma breve – precisò – e questo è rarissimo, ed era un genio vero. Mentre un altro grande, come Marquez, era quello che da noi si direbbe un culo, letteralmente, purtroppo Marquez era un genio anche lui ma era succube della moglie, scriveva mattina e sera e magari si faceva anche leggere, scriveva in fretta e il suo capolavoro gli venne male, per questo sembra così perfetto, ma fu dovuto solo alla fretta, doveva pagare una casa con Cent’anni di solitudine che, senza successo, sarebbe potuto benissimo diventare Cent’anni di calci in culo. Io l’ho conosciuto di persona Marquez e mi raccontò tutto. Magari era pure vero, ricordai. Forse aveva solo qualche anno in più e si era anche rincretinito, ma, come diceva lui, era un genio. E solo per quell’errore di gioventù aveva scritto quell’orrendo romanzo di successo, la sua peggiore colpa.
4 Non c’è più niente
Non c’è niente da dire, sono un esterofilo. Mio padre aveva un lavoro onesto (così si dice), in Italia che invece, come al solito, era in preda ai suoi fantasmi. In Italia si parlava molto di fascismo: l’identità italiana tolto il momento del fascismo sembrava inconsistente, a differenza del fascino e della potenza della rivoluzione francese, era stato l’unico momento di recupero delle radici peninsulari dell’antica Roma, ma era un recupero rinnegato e negativo. Se le altre nazioni fecero sentire la loro identità l’Italia era persa nei suoi sogni e incubi a occhi aperti, terra dei senza terra, luogo degli apolidi. Non c’era più, se c’era mai stata un’identità italiana. Si era sciolta. L’Italia non esisteva più.
Io continuai a scrivere poesie e a stare con Sylvie. Non so se ero felice. La mia mente era bianca e mi pareva senza pensieri rilevanti in quel periodo. Forse incombeva in me una sottile angoscia. Una sorta di atarassia venata di angoscia, un grande dolore e una grande rabbia che scompare sciolta in un grande oceano, lasciandomi sciapido, come senza personalità.
Solo ogni tanto mi sembra di sentire in sordina come parlare vicino alle mie orecchie fatte molto più immense, lo spirito di Baudelaire, un po’ incazzato, che mi dice che un giorno sarebbe tutto cambiato di nuovo, chissà in quale modo, nel mondo dell’analogia e delle corrispondenze.
Ti piace0 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Il racconto è molto suggestivo e ricco di spunti interessanti. Parigi come specchio dell’animo del protagonista è un’idea potente. Sylvie e il richiamo a Baudelaire sono elementi preziosi che, se sviluppati ulteriormente, possono conferire maggiore densità narrativa.