Amir e Mohammed

Serie: L'autunno del 2007


Amir aveva una primordiale attitudine per il commercio, la sua natura era la natura del mercante. Scambiava, contrattava, stimava e comparava, un favore da fare o da ricevere valeva per lui come moneta sonante. Sapeva il fatto suo e raramente tirava fuori i soldi dalle tasche, preferiva di gran lunga il baratto e lo praticava con autentica gioia.

«Queste cose le impari litigando con le donne che ti piacciono di più», diceva.

Mi sembrava plausibile.

Amir aveva un debole per la tecnologia, per i cellulari di ultima generazione e per l’umorismo sconcio.

«Boh, Amir, non capisco cosa ci trovi in questa roba», gli dicevo.

«Ma Michele, guarda, guarda», mi si metteva di fianco, sceglieva un altro filmato e mi piazzava il telefono in mano. Poi se ne stava lì, a mezzo passo da me, spiando silenziosamente la mia reazione. Il fatto che rimanessi piuttosto indifferente davanti all’immagine di un mulo che rincorreva un uomo nudo lo lasciava sinceramente sconcertato. Io da parte mia non sapevo cosa farci.

Dei due iraniani Amir era senz’altro l’estroverso. Mohammed invece era quello taciturno, lavorava in un banco poco distante dal nostro, il suo compito consisteva nel posizionare le guide e le viti necessarie in quei pezzi che poi si dovevano montare tra di loro.

Mohammed aveva un guaio con la lingua, la capiva ma non era in grado di portarla dalle orecchie alla bocca, parole e nomi si infilavano invariabilmente in mezzo ai suoi denti e rimanevano lì, a far piccoli rumori tra di loro.

Mohammed era un uomo schivo e sensibile e si vergognava di questa sua evidente incapacità. Per questa ragione evitava perfino di spiccicare le due o tre frasi che a spintoni, strappi e spallate, era riuscito ad imparare. In compenso utilizzava moltissimo le mani, la testa e gli occhi che aveva neri, appuntiti e costantemente esterrefatti.

A furia di far pratica era diventato bravo, per un verso o per l’altro la sua lingua rudimentale riusciva a funzionare. Mohammed aveva un modo tutto suo di far domande e dar risposte. Mi aveva fatto capire a colpi di sorrisi e manate sulle spalle che ero individuo degno della sua persianissima considerazione.

Amir e Mohammed ci stavano pensando ma ancora non avevano una macchina.

Erano pazienti e sapendosi egregiamente arrangiare con quello che gli passava sotto mano potevano permettersi il lusso di aspettare un buon affare. Nel frattempo, pioggia o sole che fosse, arrivavano al lavoro a bordo di un improbabile e sgangherato motorino, Amir guidava e Mohammed se ne stava appollaiato dietro. Non avevo mai visto una cosa del genere, mi chiedevo dove l’avessero pescato. Le ruote di quel minuscolo mostro erano piccole e sottili, il telaio blu scuro era tozzo e corto, la marmitta era sfondata. Alle due meno cinque dalla cima del viale che portava all’L6 si sentiva improvvisamente avvicinarsi un fracasso di tempesta, giravamo gli occhi verso la direzione del disastro, erano i due iraniani che ci arrivavano dritti addosso a cavalcioni dell’inferno.

Parcheggiavano, si toglievano il casco e poi mi salutavano con la mano. Come facessero a non ribaltarsi ad ogni curva era un mistero. Evidentemente qualcuno li stava proteggendo.

«Vuoi un caffè Michele?» mi chiedeva Amir.

«No grazie, l’ho già preso.»

«Dai te lo offro io.»

«Va bene, allora.»

Attraversavamo il piazzale e andavamo davanti alla macchinetta automatica. Prendevo il mio bicchierino di plastica, ringraziavo, mi appoggiavo con la schiena al muro e me ne stavo zitto e buono. Ascoltavo Amir e Mohammed mentre parlavano tranquillamente dei fatti loro nella propria lingua.

Il Farsi è un soffio rotondo e controllato, è scolpito con forza ed eleganza nel vento.

Serie: L'autunno del 2007


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