Le cantrici dell’olocausto 

Il fiato creava delle piccole nuvole di vapore davanti ai miei occhi.

Ormai non percepivo più il dolore alle gambe. Il corridoio sembrava diventare sempre più stretto. Saldo nel polso avevo il pugnale di mio figlio, il sangue sulla lama si era incrostato. I rumori meccanici dell’estrattore di petrolio ormai abbandonato battevano ritmicamente il passo della mia fuga.

Sfondai una porta, mi ritrovai in una sala comune, i fantasmi mi guardarono con aria sospetta, ma tornarono poi alla mansione eterna di ripetere per sempre i gesti fatti poco prima della morte.

Le udirono.

I loro sguardi eterei si posarono nuovamente su di me.

Li avevo appena condannati all’inferno spezzando il loop delle loro azioni. Si inginocchiarono e rivolsero gli occhi al cielo in attesa.

Udii il lamento.

Scappai.

Non ce la facevo più. Percorsi un corridoio identico a quello precedente, a duecento metri da me c’era una porta, allungai la mano per stringere la maniglia.

Due orbite vuote si palesarono davanti ai miei occhi, inghiottii un infarto, brandii il pugnale con colpi incerti davanti ai miei occhi, mi voltai e tornai sui miei passi. Entrai in un’altra stanza: uffici. Distrussi una delle finestre con l’elsa del pugnale e mi calai al piano inferiore.

Le vidi. Prive di bulbi oculari e di bocca, un naso sottile, nessun capello, corpo scheletrico, gambe ormai tramutatesi in tentacoli orripilanti che le sollevavano a due metri da terra.

Dovevo fuggire, usai una granata fumogena e nella confusione mi allontanai, mi ficcai in un tubo di drenaggio e cominciai a percorrerlo sperando che mi avessero perso nel fumo. Potevo udire alle mie spalle le voci che intonavano il canto funebre.

Continuai a strisciare come un verme finché vidi un’uscita.

Il cielo era ricoperto da nuvole gialle radioattive. Senza voltarmi continuai a correre.

“Perché?”

Caddi.

Un tentacolo mi aveva cinto la caviglia, provai a liberarmi, ma mi trascinò a due centimetri dal suo volto.

Nelle mie narici penetrò il lezzo di cadavere in decomposizione.

“Perché?”

La bocca non si muoveva, la voce sembrava provenire dal cielo stesso. Provai a svincolarmi dalla presa, ma non riuscii. Un tentacolo afferrò il polso che stringeva il pugnale, esaminò la lama sporca di sangue. Riconobbe l’arma che aveva ucciso una delle sorelle.

Si aprì una ferita sopra al mento, diventò sempre più larga fino ad assumere la forma di una bocca dai denti aguzzi. Gridò.

Mi colò del sangue dalle orecchie. Fui lanciato lontano mentre l’urlo disperato dissipava le nuvole nel cielo svelando l’etere azzurro. Piansi.

Le sorelle erano in arrivo.

Non potevo morire, non ancora.

Mano nella mano avanzavano come fluttuando.

Il corpo mi stava abbandonando, i miei vestiti erano logori, ero madido di sudore e sporco di sangue.

Mi rialzai e scappai verso un altro impianto di estrazione, i fantasmi furono disturbati dalla mia presenza. Andai verso la sala di controllo.

Erano sempre più vicine. Le orecchie mi fischiavano. Udii il lamento funebre che invocava la punizione divina.

Avevo il cuore pronto ad esplodere.

“Perché?”, la domanda riecheggiava per l’intera struttura.

Smanettai con i comandi.

I fantasmi avevano rivolto i loro sguardi al cielo con le mani congiunte in preghiera.

Le cantrici dell’olocausto avanzarono. I loro tentacoli cominciarono a cercarmi nei labirinti di ferro.

Gocce di sudore e lacrime macchiarono i monitor davanti a me, un messaggio rosso d’allarme lampeggiava, lo ignorai, digitai gli ultimi comandi come tasti di una macchina da scrivere che segnava le ultime lettere sulla mia lapide.

Un tentacolo distrusse il muro alla mia destra, mi voltai col pugnale e lo ferii, scappai, ovunque mi voltavo orbite vuote mi attendevano. Mi gettai su un tubo e scivolai per l’intera lunghezza.

Alle mie spalle il complesso saltò in aria in una nuvola di fuoco, fiamme, sangue e anime.

Le cantrici dell’olocausto furono coinvolte nell’esplosione, vidi i loro corpi bruciarsi e farsi a pezzi.

Volevo allontanarmi, ma qualcosa mi teneva bloccato. Le grida di dolore delle cantrici si levarono verso il cielo. In me non c’era un briciolo di colpa, non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla distruzione che avevo causato.

“Perché…”, la cantrice che mi aveva afferrato si trascinò verso di me, i tentacoli erano mozzati, un braccio era spappolato, metà della testa era bruciata.

Strisciò ai miei piedi, si aggrappò al mio corpo e si fece forza per salire, con l’unico braccio rimanente prese la mano che impugnava il coltello e si adagiò la lama al collo.

“Finisci ciò che hai iniziato.”

La mia mano tremava, il pugnale rifletté la luce del Sole, nel vuoto delle orbite sembrava nascosta la verità del Creato.

Il sangue schizzò sul mio volto.

La cantrice si accasciò.

La mia anima fu nuovamente oppressa dall’orrore.

Sollevai lo sguardo.

Le cantrici dell’olocausto stavano arrivando per vendicare le sorelle.

Il loro canto squarciò la Terra.

Espirai.

Abbandonai il cadavere mentre una pozza di sangue si allargava sotto di lei.

Il fuoco crepitava, pezzi di metallo crollavano, i miei passi non si fermarono.

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