Le due ore

Serie: Il confronto


Un ritaglio di due ore settimanali di un professore per una classe, con lo scopo di insegnare a discutere e riflettere insieme. I temi proposti manterranno come punto cardine la libertà, modellando il concetto fino allo sfinimento, al paradosso, in particolare per un ragazzo di sedici anni.

“So che non è una tipologia di scrittura consona a qualsivoglia contesto se non strettamente confidenziale (al pari di un diario segreto per intendersi) e tendenzialmente vulnerabile alla noia se il lettore è maldisposto ad esso, ma io in qualità di scrittore voglio prendermi, con tutto l’egoismo di un delirio di un giovedì sera, il mio spazio e utilizzarlo come valvola di sfogo.”

Fu questo quello che mi si posò davanti agli occhi quando presi in mano per l’ultima volta il foglio protocollo di Giuliano Stellone e, arreso alla stanchezza, lo posai sul comodino dopo aver letto queste poche righe, con la promessa di continuarlo nel pomeriggio del giorno dopo.

Era un ragazzo di sedici anni Giuliano Stellone, visivamente ispido, con capelli lunghi e bruni abbandonati a sé stessi e qualche pelo di barba che cresceva selvaggiamente che si alternava ad alcuni e vistosi segni di acne. Rispecchiava magnificamente lo stereotipo della persona sensibile che vive la sua giovinezza con difficoltà di relazione, parlando poco e isolandosi.

Io da insegnante non ho mai lasciato che la sua forma fisica creasse in me una qualche forma di pena o tenerezza, non ho mai creduto al ruolo di insegnante praticato con somiglianza all’infermiere. Non necessitava di cure, ma di nutrimento.

Se nel suo silenzio quotidiano della scuola e nella sua disattenzione alle lezioni faceva scorrere il tempo, nella sua produzione di testi che assegnavo alla classe era tra i migliori. Non nego che l’umano sentimento di empatia che le persone più in difficoltà possono creare nei cuori in questo caso veniva spesso soppiantato dalla curiosità di vedere cosa mi avrebbe tirato fuori dal cilindro ogni volta. Non nego nemmeno che a volte mi è capitato di dare titoli quasi unicamente indirizzati a lui e di tornare a casa scoprendomi in attesa.

Non prendetemi per folle.

Il mio piano di studio era classico, storia e letteratura come la società richiede e impone, con l’unica differenza di aver ritagliato una piccola parte, circa due ore alla settimana, in cui gli studenti parlavano e discutevano partendo da temi da me proposti. Non esistevano regole in quel ritaglio di tempo se non quelle di una società civile e non violenta, non esistevano censure e non esistevano voti.

Questa ultima parte aveva creato non pochi problemi, lo devo ammettere.

Gli studenti si dividevano tra quelli che avevano una visione della scuola come dovere e che inizialmente risultavano poco partecipi, mentalmente assenti mentre quelli che subivano le classiche ore come una costrizione in queste ore riuscivano a sentirsi più liberi.

“Perché devo sforzarmi senza avere risultato?” mi fu chiesto la prima settimana.

Decisi di rispondere solo quella volta, promisi loro e a me stesso che quella domanda era l’unica ragione per la quale sarebbero stati ignorati da me.

“Se interpretate queste due ore come una perdita di tempo perchè non finalizzata al voto per me potete uscire, andare a fumare in bagno, correre per i corridoi o fare qualsiasi altra cosa vogliate. Per queste due ore non sarete sotto la mia giurisdizione. Se credete di essere già pronti per tutto quello che non riguarda il voto avrete le mie congratulazioni e una gran bella pacca sulle spalle, ma se invece avete una qualche insicurezza, idea o necessità di un confronto per il mondo là fuori questo è il momento giusto e, credetemi, troverete sicuramente qualcuno con cui condividere anche solo una parte di essa.”

La prima reazione fu di silenzio. Mi aspettavo che qualcuno uscisse, ma nessuno lo fece. Partii da quelle che ritenni fossero le basi con la domanda: “Cosa rende una società civile?”

I caratteri forti ed esuberanti, come per esempio Ginevra Colasante e Giacomo Colletti, esplosero subito con le definizioni, sentite e risentite. Qualcuno fece presente loro le lacune delle definizioni e la differenza tra la teoria e la pratica.

Giuliano niente.

Decisi di dare quindi dei titoli che la settimana successiva ogni studente, senza obbligo, poteva decidere se affrontare oralmente o portare in forma scritta da leggere alla classe. Questo permise a tutti di dare la possibilità di esprimersi nel modo che ritenevano migliore.

Con il passare delle settimane la faccenda diveniva sempre più interessante e la cosa mi rendeva molto orgoglioso. Chi più chi meno, riuscirono tutti a dire la propria opinione sull’argomento che ritenevano più vicino loro.

Anche Giuliano aveva iniziato a parlare. Con una voce flebile aveva iniziato a mostrare dove la sua mente lo portava nelle riflessioni. Al contrario di altri nella costruzione orale della sua idea si trovava spesso impacciato, confuso, iniziando a girare in cerchio intorno alle sue idee senza afferrarle a pieno e si fece cogliere più di una volta incapace di difendere le sue opinioni.

Iniziò così a portarle in forma scritta, dimostrando la sua capacità di vagliare tutte le ipotesi, i punti di forza e quelli deboli del suo pensiero. Questo fece crescere in lui un sentimento di potenza che riuscivo a percepire mentre leggeva.

I dibattiti erano sempre più interessanti, fino a quando non proposi un titolo in particolare: “Vita e prosperità umana nella società civile.”

“Vita: Forza, capacità, impulso di vivere, come condizione e caratteristica individuale che può tradursi in particolare efficienza e operosità, o anche vivacità etc etc.

Di primo istinto ho aperto il dizionario e ho cercato la parola vita perché solo quando ci ho pensato realmente ho capito che non avrei saputo dare una definizione a essa.

Questa è una parte della definizione della Treccani, quella che tra tutte ho preferito.

Ho dovuto necessariamente definire nella mia testa la parola vita perché, così come in questo argomento e così come in qualsiasi altra cosa terrena, che sia concreta, superflua, importante, affettiva, divertente o noiosa, è legata. Persino all’odio è legata la vita.

Umana e società sono indissolubilmente legate al concetto di vita, questa non può essere un’opinione. Sicuramente meno per il concetto di prosperità e ancora meno per civile.

Partiamo con ordine.

Il concetto di prosperità è nullo, innocuo senza un inizio o una finalità. La prosperità esiste sempre, se in questo momento vi giraste alla vostra destra vedreste prosperità, alla vostra sinistra lo stesso. Vita o non vita, per qualcuno o qualcosa ci sarebbe prosperità. Dal deserto ai profondi abissi del mare qualcosa vive, genera e infine muore, seguendo i passaggi fondamentali della vita. Per questo prosperità è un concetto divisorio, non può essere legato al concetto generale di vita perché, per definizione naturale, per far prosperare alcuni altri devono morire.

Diventa chiaro che in un discorso di società la parola prosperità diventa pericolosa, delicata. Se qualcuno prospera sulle spalle di altri, non solo nel senso primitivo di selezione naturale, ma anche solo affaticando una parte di società per il benessere dell’altra, come può essere essa considerata una società civile?

Se pensate che questo sia lo scritto delle risposte alle domande fondamentali avete sbagliato di grosso, Dio mi fulmini se lo abbia anche solo preteso una sola volta a me stesso. Il mio intento è solo sottoporre alla vostra attenzione che se ritenete la vostra una posizione di prosperità lo state facendo a spese di altri. Questo non è solo da un punto di vista globale con lo sfruttamento dei paesi del terzo mondo, già dal nome si può intendere lo schifo a cui porta la prosperità come un macro esempio da cui stare lontani, ma in ogni gruppo in cui voi siate presenti, dallo sport agli amici, dalla scuola al lavoro, dalla superficie al profondo. Se in qualcuno di questi aspetti riuscite a riconoscervi, definirvi prosperi, riuscite anche a definirvi civili?”

“Sei solo un perdente.”

Serie: Il confronto


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