Libellula immobile
Esco dalla sala riunioni con un forte senso di rabbia, accompagno la porta alle mie spalle e con delicatezza la richiudo quando vorrei sbatterla con forza, far tremare le pareti e le cravatte di tutti quei sapientoni che al mattino avevano interrotto il nostro lavoro per presentare il nuovo software di contabilità , facendoci sentire inutili. Bisogna rassegnarsi all’idea che l’intelligenza artificiale ci soppianterà , è solo questione di tempo. Diciotto impiegati tra donne e uomini avrebbero dovuto, parole loro, «ridisegnare il proprio futuro». Al sentire quelle parole ci eravamo guardati sconcertati, sembrava una barzelletta, ma nessuno rise.
Una volta fuori dall’edificio, attraverso la strada e mi incammino a passo svelto verso un altro palazzo; sfilo davanti alle vetrine illuminate dei negozi e osservo il mio corpo esile avvolto in un caldo cappotto.
Raggiungo la scuola d’arte, la targa in lucido ottone risalta sotto il fascio bianco del lampione, spingo il portone e salgo le scale in marmo.
Entro nell’aula 2/b.
Mi svesto frettolosamente dietro un separé in legno dai disegni di fiori tropicali ormai sbiaditi, indosso una vestaglia di seta nera e, a piedi nudi, mi precipito al centro della sala; volto le spalle ai presenti e guardo fisso fuori dalla finestra. Un’ampia vetrata si affaccia sui tetti di una Torino avvolta da nuvole basse.
Faccio scivolare il tessuto freddo giù dalle spalle e lentamente dai gomiti, «stop» urla una voce potente alle mie spalle, è il consueto segnale, ora dovrò restare immobile sino al prossimo richiamo.
Il mio corpo rimane a disposizione degli artisti.
Sento il brusio dei pennelli che scivolano sulle tele ruvide, qualche goccia di pittura cadere sul pavimento. Respiro lentamente senza sollevare le spalle né allargare il torace, dopo interminabili minuti mi viene concessa una pausa.
Alzo i gomiti e mi copro le spalle, allaccio la cintura intorno alla vita e curiosa mi volto ad osservare gli artisti: solo gli occhi e i nasi sbucano da sopra le tele, ancora troppo intenti a portare avanti il loro dipinto.
L’insegnante mi porge gentilmente una tazza di caffè fumante che accetto volentieri e dopo pochi minuti mi invita a riprendere posizione.
Eseguo i movimenti: scopro la schiena, le spalle, «stop».
Fuori ha iniziato a piovere, le tende di velluto bordeaux sono aperte, toccano il pavimento che non posso guardare, devo restare col capo eretto; conto le gocce sui vetri, le osservo scivolare verso il basso sino a raggiungere il davanzale, osservo i piccioni posarsi sui tetti.
Mi raggiunge il ricordo di quel paesino di pescatori, di quell’uomo misterioso che ogni giorno si recava in spiaggia; sempre alla stessa ora, sempre con il muso lungo.
Una mattina lo seguii. Lo intravidi con le spalle appoggiate allo scafo di quel gozzo dismesso, nascondiglio per i bambini, rifugio per gli amanti, illusione per i sognatori pronti a salpare verso mari inesplorati.
Accadde tutto in fretta, dopo cena tornai sulla la spiaggia e raggiunsi la barca arenata che mi attendeva abbandonata in un angolo silenzioso, vuota il vento la faceva ululare e le onde battevano i suoi fianchi.
Ogni volta è un gioco,devo trovare un pensiero che mi distragga per restare immobile, ed è proprio in quel momento che soggiungono i ricordi, quel passato che non riesco a dimenticare.
A casa stanca mi immergo nella vasca da bagno, i miei pensieri tornano a quella mano forte, alla barba incolta.
Al mattino mi precipito in cucina, sorseggio un caffè amaro, scelgo con cura la biancheria intima, un vestito semplice, tacchi alti, sorrido e mi precipito in ufficio.
Lo squillo del telefono mi fa sobbalzare, i conti non vogliono proprio quadrare, rispondo con voce seccata, una voce d’uomo mi giunge all’orecchio e un tuffo al cuore mi fa cadere la matita di mano. I pensieri tornano a quella spiaggia, alle conchiglie raccolte sul bagnasciuga, al sole che asciugava i nostri corpi dopo le lunghe nuotate.
Alle 18.00 la giornata lavorativa si conclude, fuori le foglie autunnali sono cadute sul marciapiede, avanzo calpestandole per raggiungere la metropolitana, salgo e vengo trasportata.
Mi svesto e lascio gli abiti a terra, sono in ritardo, entro rapida nell’aula e mi sdraio sul divano in velluto blu.
Il professore mi indica quale posizione assumere, mi trovo così a guardare il soffitto in legno.
«Pausa» alzo gli occhi e incrocio il suo sguardo profondo da cui traspare un’espressione dolce; torno sul divano e resto immobile, percepisco il suo sguardo percorrere il mio corpo.
Riccardo, mi sembra quello il nome con cui il maestro lo ha chiamato, non ho potuto voltarmi, riceve un «ottimo» dall’insegnante e subito dopo riprende il suo lavoro, immagino con un sorriso di soddisfazione.
Sono impaziente di vedere il quadro terminato, ma devo attendere fino a febbraio affinchè vengano esposte le tele.
Fuori è ancora buio e il cielo nero è puntellato di stelle, i rumori delle macchine e le voci dei passanti non riescono a raggiungermi quassù nel mio piccolo appartamento che ogni mattina abbandono e ogni sera raggiungo. Apro la finestra che si affaccia sul grande terrazzo dove un tavolino e quattro sedie in ferro battuto occupano il centro, ai lati vasi vuoti aspettano la primavera per ospitare i nuovi fiori. Chissà come sarà il suo appartamento, se ci saranno dei dipinti, se ci sarà una donna ad attenderlo.
Domani tornerò in ufficio dove mi attende la polverosa tastiera nera del pc, mi vedo accendere il computer e poi iniziare svogliatamente a registrare numeri su numeri, sistematicamente, in una gara contro quel dannato programma che ci è stato presentato nell’ultima riunione di studio; lui è già lì pronto, più veloce ed efficiente di me e sicuramente non avrà mal di testa né avrà bisogno di un caffè forte.
Avrò la mia rivincita in quell’aula dall’altra parte del marciapiede, aprirò il pesante portone dell’accademia, salendo le scale accarezzerò il mancorrente farò risuonare i tacchi sui gradini della scala e dentro a quella classe, sul quel divano sarò immortale .
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Ciao Elena. Il tuo racconto mi è piaciuto molto perché riesce a unire due mondi diversi, quello freddo e impersonale dell’ufficio e quello caldo, intimo e sensuale della scuola d’arte. Il contrasto tra le due vite della protagonista è raccontato con eleganza e malinconia.
Mi è piaciuta molto l’atmosfera. Torino appare grigia e piovosa, ma la scuola d’arte diventa un rifugio di luce e libertà . Le descrizioni sono ricche e visive e si percepiscono i dettagli.
Forse in alcuni passaggi il testo è un po’ lungo e tende a rallentare, soprattutto quando si indugia troppo nei ricordi, ma questo contribuisce anche a creare un tono sognante e sospeso.
Nel complesso, il tuo è un racconto affascinante, pieno di sensualità e malinconia, che parla del bisogno di sentirsi vivi e visti, anche solo per il tempo di una posa.
Ciao
grazie davvero, leggo volentieri i complimenti ma soprattutto le segnalazioni o critiche costruttive, sono quelle che mi permettono di migliorare.
Rimanere nelle 1000 parole a volte non è semplice e si rischia di troncare alcune parti e di dilungarsi in altre.
Grazie ancora
Un racconto molto bello e coinvolgente, scritto con sensibilità e immagini vivide. Si percepisce la contrapposizione tra la routine fredda dell’ufficio e la libertà espressiva dell’arte. Il finale lascia una bella sensazione di riscatto e poesia.
Grazie per il tuo positivo commento. Mi fa piacere di essere riuscita a trasmettere con chiarezza questa contrapposizione tra razionalità e creatività ,
dovere e piacere
obblighi e libertÃ