
L’inchino
Mattina infrasettimanale. In fila allo sportello della banca, attendo il mio turno. È da più di un’ora che aspetto. La filiale è recentemente stata assorbita, e di conseguenza tutte le procedure sono cambiate. Dietro il banco ci sono le due operatrici, più tre uomini che non ho mai visto. Hanno in mano un manuale di istruzioni. Probabilmente sono dipendenti della nuova banca inviati lì per spiegare come svolgere le stesse mansioni, ma sotto la nuova direzione.
È questo il motivo per cui la fila di persone è tanto lunga da uscire dall’edificio e arrivare ad occupare parte del marciapiede esterno. Lamenti generici dalle loro bocche. Alcuni rinunciano ad aspettare e se ne vanno a casa. Io non posso. Le due casse sono attualmente occupate, ma il prossimo sono io. Se abbandono ora mi toccherà rifare la fila da capo.
Spazientito, guardo l’orologio: è mezzogiorno passato. All’una devo cominciare al lavoro. Facile che salterò il pranzo.
Dietro di me: un signore anziano, capelli radi e occhiali da sole. Non sta fermo un secondo: continua a girarsi ora da una parte ora dall’altra, come se stesse cercando qualcosa. Ha una voce grave. La sento perché è da che è entrato che borbotta. Principalmente bestemmie. Di fianco a lui: una signora, anch’essa anziana, capelli ricci e corti, un cappotto pesante sulle spalle. L’uomo, nella sua danza nevrotica, si gira verso la donna e la squadra per qualche secondo. Comincia a parlarle in dialetto: si lamenta dell’acquisizione della filiale, proferisce insulti contro gli arabi che vogliono togliere il crocefisso nelle scuole, per concludere affermando che ci vorrebbe una persona autoritaria a governare il Paese.
Sono i soliti discorsi. Comincio a sudare dal nervoso: il suo tono da cavernicolo mi penetra il cervello. Le operatrici hanno bisogno di tempo per automatizzare le nuove procedure; l’Italia, insieme alla Polonia, è l’unico Stato europeo a prevedere l’obbligatorierà del crocefisso nei luoghi pubblici; una persona autoritaria l’abbiamo già avuta, e non è finita bene. Mi viene da pensare al fatto che molti sperano in quest’ultimo punto. Avere qualcuno che ti comanda ti permette di deresponsabilizzarti, di non dover pensare. L’autoritarismo è per i deboli.
La signora, dopo aver ascoltato il delirio dell’uomo e aver concordato su tutti i punti, decide di abbandonare la fila e riprovare nel pomeriggio. Lui, rimasto solo, ricomincia la sua danza nevrotica. Vede che alla sua destra c’è un termoscanner, di quelli che si usano per misurare la temperatura corporea. Con uno scatto fulmineo l’uomo fa un inchino alla giapponese e avvicina la fronte al dispositivo. Come un picchio che scava la corteccia di un albero. Il bip del termoscanner preannuncia un trentacinque e quattro. L’uomo si guarda intorno, imbarazzato. Sembra sperare che nessuno lo abbia visto compiere quel gesto. Si gira verso di me e mi guarda. Io l’ho visto. Non regge il mio sguardo: ferma la sua danza nevrotica. Uno sportello si libera: è il mio turno, finalmente.
Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Quanti casi umani che ho vissuto stando per anni oltre la barricata. Condivido la tua bella descrizione dell’uomo che pensa che, in fondo, un solo uomo che pensa per tutti sia la soluzione migliore per non pensare, e che, purtroppo, trova anche oggi grande consenso, dimostra quanto la democrazia sia fragile e vada difesa sempre dalle false verità e dalla propaganda militante.
Un’altra bella fotografia di un paese/società immersa nelle proprie abitudini, del fare e di pensiero.