Linea di confine (una storia d’amore)
Il cancello in ferro battuto sembra essere stato messo lì apposta per ricordarci la caducità dell’essere. Il luogo che protegge o, se vogliamo, da cui ci protegge, ne è la conferma e la stessa maestosità di quell’intreccio di lastre metalliche e di barre oblique, unite da bulloni e dadi e aggraffature, obbliga il visitatore a sollevare lo sguardo verso il cielo e riportarlo subito in basso, chinando il capo come se volesse soffocare i suoi pensieri che inevitabilmente sorgono quando attraversa quella estrema linea di confine.
Non sono molte le persone che varcano il cancello, se non in alcuni periodi dell’anno. Come durante l’estate, quando la luce e il calore rendono piacevole soffermarsi qualche istante lasciandosi andare ai ricordi. Quando i giovani che hanno lasciato il paese per studiare o lavorare in un altrove più o meno remoto tornano a far visita ai superstiti delle loro famiglie e ai luoghi della loro infanzia. Quando quel luogo si trasforma in un punto di incontro tra vecchi amici che si sono persi di vista dopo la fine dell’adolescenza, ma spesso anche prima.
Alcune ricorrenze infondono una parvenza di vita al piccolo borgo: Natale, Pasqua e, per quanto possa apparire strano, i giorni di commemorazione dei defunti. Ma l’atmosfera non è paragonabile a quella che si respira durante le settimane calde e assolate che culminano con la festa del Santo Patrono la prima settimana di settembre.
Potrei dire con esattezza quante volte ho attraversato la linea che separa i due mondi da quando ho perso l’unica persona a cui ho legato la mia vita fin dai giorni della scuola. Il tempo davanti a noi sembra infinito quando ancora si progettano i sogni del proprio futuro. Non c’è un istante preciso in cui tra noi e quell’infinito pieno di speranze si frappone il velo che ingabbia il nostro sguardo. Non posso dire con esattezza – ma chi può farlo? – quando il mio pensiero fu intrappolato dalla consapevolezza di essere limitati nello spazio e nel tempo. Alcuni eventi attivano o accelerano il processo: la morte di un familiare o di un amico hanno la capacità di instillare il dubbio e di fissarlo nella profondità della nostra anima.
Ogni giorno, quasi sempre da solo, attraverso quella linea e passo da un lato all’altro dell’universo. Adesso ho tempo per pensare. È accaduto nel periodo più bello dell’anno, all’inizio di un’estate. Da allora la mia esistenza è naufragata nel nulla. Il solo conforto è il mio peregrinare lungo la strada che unisce questo luogo sacro al paese, con la speranza di incontrare lei. Alcune volte l’ho sentita vicina a me. Molto vicina. Magari potessi capire come la sua presenza si sia manifestata, magari potessi evocarla.
Negli ultimi tempi ho iniziato a portare i miei passi su altre strade. Aiuta il pensiero e tiene vivo il ricordo. Immagino che anche lei farebbe la stessa cosa se sapesse che potremmo incontrarci nel nostro girovagare. Al mattino la raggiungo e mi fermo a guardare, ad aspettare. Finché, stanco, riprendo il cammino, ma il più delle volte ritorno là prima di rientrare per la notte.
Alcuni giorni fa ho avvertito ancora la sua presenza. L’ho sentita ridere, una risata che mi ha dato conforto. Non l’ho immaginata, no di certo. Era la sua risata aperta, pura, la risata che non riusciva a frenare, la risata di cui mi ero innamorato ai tempi della scuola, la risata che era stata causa dei tanti richiami da parte degli insegnanti. La risata che negli ultimi tempi non era stata più così frequente. La risata che qualche giorno fa mi ha colpito come allora.
Oggi è domenica. In città lo si nota perché c’è meno movimento. In un piccolo paese accade il contrario. Le vie si animano, gli amici si incontrano al bar per raccontarsi le ultime novità davanti a un caffè, i ragazzi e le ragazze che ancora non sono fuggiti si ritrovano sulle panchine della piazza. Qualcuno si reca in chiesa per la messa delle dieci e mezza. Qualcuno, dopo la messa, prosegue nel suo cammino fatto di piccoli passi e intimi ricordi fino a varcare il cancello, per portare un fiore e una preghiera ai propri cari.
Mi piacciono le domeniche e i giorni di festa. Posso camminare tra le vie del paese e sentirmi meno solo. Non serve parlare, basta un cenno, un saluto. E quando anche il sole fa la sua parte, quando ci offre luce e calore senza chiederci nulla in cambio, la domenica sembra proiettare l’intera comunità verso un’altra dimensione colma di felicità, di sorrisi, di voglia di restare legati alle tradizioni.
Cammino lungo la solita strada e le persone che incontro mi fanno capire che la messa è finita, e tutti sono andati in pace. Non manca molto, poi come ogni giorno siederò su una panchina a guardare e ad aspettare un segno che mi dica che lei è vicina, il rumore dei passi, il suono della risata. Mi chiedo perché non riesca a incontrarla. Vedo molte persone, le riconosco quasi tutte. Forse neppure si accorgono di me, ma non è un problema. Non mi interessa degli altri.
Il tragitto dal cimitero al paese mi è sembrato più breve oggi. Di certo è l’impazienza di arrivare alla mia solita panchina. Dall’altro lato della strada, la casa a due piani sembra una di quelle che disegnano i bambini. La finestra al piano superiore, quella alla destra del piccolo balcone in pietra, ha le gelosie chiuse. Forse è uscita presto questa mattina, ma io non ho fretta. Posso restare qui fino a questa sera. E domani sarò di nuovo qui. Inganno il tempo con i ricordi ancora vividi della mia vita al di là di quella finestra, una vita che ci mentiva con l’illusione di essere infinita. Sono certo che oggi la vedrò. Sono certo che sentirò la sua risata, ormai è passato un certo tempo e penso che abbia voglia di vivere i suoi ultimi anni circondata dall’affetto di chi le vuole bene, come gliene ho voluto io.
Non ho fretta. Un giorno saremo di nuovo insieme.
Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Ciao Antonio. Mi è piaciuto davvero tanto questo tuo racconto.
Hai saputo costruisce un’atmosfera quieta e riflessiva, in cui il cancello e il cimitero diventano soglie simboliche tra memoria e presenza, tra vita e perdita. La tua narrazione procede con passo lento e meditativo, lasciando emergere con delicatezza la nostalgia e il legame affettivo che spinge il protagonista al suo quotidiano pellegrinaggio. Dall’inizio alla fine è mantenuto un tono intimo e rispettoso, capace di suggerire più che dichiarare, e di evocare la dimensione fragile e luminosa del rimpianto.
Questa sensibilità emerge soprattutto nel rapporto tra il protagonista e la figura amata, percepita attraverso segni evanescenti che trasformano il percorso dal cimitero al paese in un rito sospeso tra speranza e memoria.
Davvero molto bello 🙂
Un grande amore che non finisce col distacco fisico. Una vita spezzata ma ancora forte il legame per chi continua a vagare negli stessi luoghi e nel ricordo dei tempi felici. C’é tanta malinconia nel cuore e nella mente di chi é rimasto solo, ma non muore la speranza di ritrovarsi altrove, un giorno, uniti per sempre.
Un bel racconto, intenso e ricco di immagini suggestive.
Solo una parola per questo racconto: stupendo. Grazie per la lettura, Antonio.
Che meraviglia. L’ho riletto due volte, la seconda per gustarmi di nuovo tutto, ma alla luce del finale. Un racconto costruito davvero bene, un ribaltamento di prospettiva che rende ancora più commovente e potente l’idea di questo amore. Chissà perchè ci aspettiamo sempre che sia “chi rimane” a provare certe cose. E invece. Mi hai fatto sentire meno sola al pensiero che dall’altra parte dell’universo, in qualche modo, questo possa accadere davvero. Essere amati e amabili anche “dopo”. Hai descritto una delle forme di amore più grandi.