Caro Luigi. Sai che ogni volta c’è qualcosa che mi spiazza, credo non sia mai successo il contrario. In ogni singolo episodio! E, naturalmente, mi piace condividerlo perché poi, dalle tue risposte ho sempre un riscontro interessante e illuminante.
Ciò che qui mi spiazza è il ‘rumore’ che ho sentito, o meglio il frastuono. Mi spiego. In questo episodio c’è un continuo vociare, ma su livelli diversi.
Quello di Edo è un vero e proprio vociare che diventa quasi assordante, sicuramente fastidioso. Inoltre, cosa che meno ho tollerato, è che, la sua voce è accompagnata da gesti, sopra tutti lo strattonare continuamente il povero ragazzo.
Quello del Direttore è un parlare pacato, dopo essersi messo in ascolto dei versi e averli fatti propri. Non so bene dove questo suo parlare porterà, ma il mio istinto mi dice a niente di buono. Tuttavia, la sua è una voce piacevole e che infonde sicurezza.
Il Poeta ragazzo, invece, non ha voce. Lui non parla, ma ‘sente’ dentro e teme per la sua perdita. Se ci mettiamo bene in ascolto, questo suo sentire lo possiamo fare nostro.
Questa volta più che mai aspetto la prossima narrazione. Come sempre, bravissimo.
Ciao, Cristiana. È molto interessante, quanto invitante, questa tua analisi della polifonia dell’episodio, che è la stessa che mi attraversa durante la formazione delle situazioni, quando i personaggi più che segni sono frutto di suoni, di sussurri, a volte dell’alternanza di grida e di bisbiglii. Il tono e la timbrica della cena in camera d’albergo, si sdoppia e in parte si deflagra nella dimensione più aperta e ricca di interferenze del bar della stazione, dove alla configurazione oggettiva del fatto semplice, elementare, legato alla scorsa sbrigativa degli appunti sparsi di un giovane poeta, si alternano le sue risonanze più intime, il rapporto con i ricordi, con i dolori del passato, dal passaggio in ombra di Margot alla maschera di cera di una madre dal ghigno agghiacciante. Nei ricordi del poeta la madre ha sempre un viso, un grido, un suono metallico. La sua compagna scomparsa è sempre un po’ in filigrana, un tocco leggero di matita su di un foglio bianco nell’ora di ornato, ma è sempre senza voce, senza aria, senza un filo di trucco o di rimorso.
Lo spiazzamento che avverti è lo stesso che mi risuona di continuo, sia nelle voci che si interrogano, e ogni tanto si incantano e si confondono, prima di eclissarsi per qualche istante, che nelle funzioni simboliche delle varie figure in gioco, che concertano un mistero ancora più grande e più profondo dei resoconti poetici di Stain, ma che solo grazie a lui avrà modo di dipanarsi e di mettere poi a tacere, quanto meno a sedare, il groviglio di stimoli e di impulsi di questa singolare commedia dell’assurdo.
Senza anticiparti troppo, posso dirti che vi sarà una zona del progetto dove i suoni, i rumori che hai percepito, diventeranno lo sfondo, quasi un personaggio parallelo, accompagnando lo sviluppo simultaneo degli avvenimenti in corso, che tra qualche episodio vivranno un cambio brusco di punto di vista narrante, quindi di rotta, di sonorità e di traiettoria.
Un grazie per le tue stimolanti riflessioni. A presto e buona scrittura.
Come già detto da Arianna, l’immagine del lume azzurro ha colpito molto anche me. Hai reso benissimo quel tipo di rituale che rende l’atto del leggere, per chi lo ama davvero, una cosa quasi “sacra”.
Forse proprio per questo il “furto” inaspettato dei pezzi mi ha spiazzata, ho molto faticato ha trovato del genio, come Edo lo definisce, in quel gesto.
Sul finale invece mi ha messa in allarme, di nuovo, il nervosismo e l’insistenza di Edo nei confronti di Stain. Era già emerso nel capitolo precedente, come se a tutti gli effetti Edo ormai abbia instaurato un rapporto paragonabile appunto a quello tra genitore e figlio. È come se Stain stesse diventando l’occasione per colmare un vuoto che Edo sente e sentiva già prima, al punto di non cogliere piu i confini che li separano. Ma forse è solo una mia sensazione.
Ciao, Dea. I commenti agli episodi aprono sempre nuovi fronti, traiettorie diverse, imprevedibili, che fa sempre bene riattraversare a una certa distanza dalla stesura e con una diversa consapevolezza. Come nel caso del passaggio del lume azzurro, che ho riletto più volte, per comprendere dove fosse l’elemento che evocasse queste suggestioni e risonanze così singolari. Eppure è una disposizione elementare, senza troppi ornamenti, forzature. Ho pensato anche al tempo futuro dell’accensione, come erogatore di una soglia di impossibilità o di irrealtà del momento che si descrive come immanente, pulsante in una dimensione non ancora tangibile o certificabile. Credo che da questo piccolo spunto, si delinei tutto il comportamento della serie, con i suoi versanti: il costante grado ipotetico che si frappone tra le intenzioni, le situazioni, le configurazioni introspettive dei personaggi in gioco, che sono sempre filtrati da un grado di possibile irrealtà, dalla presenza seduttiva di un fattore sovversivo di correzione che potrebbe spostarli dalla loro postazione verso territori ancora più ignoti e impenetrabili degli attuali. È proprio quello che tu hai colto in Edo e in Stain, nell’evoluzione del loro rapporto, che vive una progressione sempre più complessa, ossessiva, tortuosa, da entrambe le prospettive, e che interesserà simultaneamente tutte le arcate dimensionali del racconto, in più livelli di tempo, di intensità e di realtà, prima di convergere in un “unicum”, fonte erogatrice e sovvertitrice del tutto, da cui ogni equilibrio-squilibrio, avrà vissuto la sua genesi, il travaglio invisibile del suo mistero. Ancora un grazie per la tua preziosa attenzione.
P.S.
Condivido con te che il gesto sconsiderato del direttore della rivista non abbia proprio nulla di geniale. È solo banale, frutto di un rapporto con la poesia fatto di dominio, sopraffazione, esercizio disfunzionale di piccole astuzie, sotterfugi e ingiustizie.
“Io accenderò il lume azzurro sul mio tavolo e declamerò uno per uno i suoi versi, per valutarne l’effetto a distanza, il loro sapore, come la loro forza e intensità drammatica e sonora”: ho amato questo rituale! Dopo averlo letto, mi è rimasto in mente per tutto il tempo: fino alla conclusione dell’episodio non riuscivo a pensare ad altro. Complimenti, questa è una delle immagini che rimangono scolpite in mente.
Grazie, Arianna. Hai colto un momento di grande intimità luministica, dove ho concentrato le risonanze della poesia nell’ambiente, ma anche nell’immaginario della voce narrante, come se durante il suo resoconto ai suoi amici, il poeta le facesse proprie, espandendole anche nella camera d’albergo in cui si trovano. Mi fa davvero piacere che tu abbia colto questo piccolo squarcio a cui tengo molto, essendo insieme delicato e misterioso. Un saluto e a presto.
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Caro Luigi. Sai che ogni volta c’è qualcosa che mi spiazza, credo non sia mai successo il contrario. In ogni singolo episodio! E, naturalmente, mi piace condividerlo perché poi, dalle tue risposte ho sempre un riscontro interessante e illuminante.
Ciò che qui mi spiazza è il ‘rumore’ che ho sentito, o meglio il frastuono. Mi spiego. In questo episodio c’è un continuo vociare, ma su livelli diversi.
Quello di Edo è un vero e proprio vociare che diventa quasi assordante, sicuramente fastidioso. Inoltre, cosa che meno ho tollerato, è che, la sua voce è accompagnata da gesti, sopra tutti lo strattonare continuamente il povero ragazzo.
Quello del Direttore è un parlare pacato, dopo essersi messo in ascolto dei versi e averli fatti propri. Non so bene dove questo suo parlare porterà, ma il mio istinto mi dice a niente di buono. Tuttavia, la sua è una voce piacevole e che infonde sicurezza.
Il Poeta ragazzo, invece, non ha voce. Lui non parla, ma ‘sente’ dentro e teme per la sua perdita. Se ci mettiamo bene in ascolto, questo suo sentire lo possiamo fare nostro.
Questa volta più che mai aspetto la prossima narrazione. Come sempre, bravissimo.
Ciao, Cristiana. È molto interessante, quanto invitante, questa tua analisi della polifonia dell’episodio, che è la stessa che mi attraversa durante la formazione delle situazioni, quando i personaggi più che segni sono frutto di suoni, di sussurri, a volte dell’alternanza di grida e di bisbiglii. Il tono e la timbrica della cena in camera d’albergo, si sdoppia e in parte si deflagra nella dimensione più aperta e ricca di interferenze del bar della stazione, dove alla configurazione oggettiva del fatto semplice, elementare, legato alla scorsa sbrigativa degli appunti sparsi di un giovane poeta, si alternano le sue risonanze più intime, il rapporto con i ricordi, con i dolori del passato, dal passaggio in ombra di Margot alla maschera di cera di una madre dal ghigno agghiacciante. Nei ricordi del poeta la madre ha sempre un viso, un grido, un suono metallico. La sua compagna scomparsa è sempre un po’ in filigrana, un tocco leggero di matita su di un foglio bianco nell’ora di ornato, ma è sempre senza voce, senza aria, senza un filo di trucco o di rimorso.
Lo spiazzamento che avverti è lo stesso che mi risuona di continuo, sia nelle voci che si interrogano, e ogni tanto si incantano e si confondono, prima di eclissarsi per qualche istante, che nelle funzioni simboliche delle varie figure in gioco, che concertano un mistero ancora più grande e più profondo dei resoconti poetici di Stain, ma che solo grazie a lui avrà modo di dipanarsi e di mettere poi a tacere, quanto meno a sedare, il groviglio di stimoli e di impulsi di questa singolare commedia dell’assurdo.
Senza anticiparti troppo, posso dirti che vi sarà una zona del progetto dove i suoni, i rumori che hai percepito, diventeranno lo sfondo, quasi un personaggio parallelo, accompagnando lo sviluppo simultaneo degli avvenimenti in corso, che tra qualche episodio vivranno un cambio brusco di punto di vista narrante, quindi di rotta, di sonorità e di traiettoria.
Un grazie per le tue stimolanti riflessioni. A presto e buona scrittura.
Come già detto da Arianna, l’immagine del lume azzurro ha colpito molto anche me. Hai reso benissimo quel tipo di rituale che rende l’atto del leggere, per chi lo ama davvero, una cosa quasi “sacra”.
Forse proprio per questo il “furto” inaspettato dei pezzi mi ha spiazzata, ho molto faticato ha trovato del genio, come Edo lo definisce, in quel gesto.
Sul finale invece mi ha messa in allarme, di nuovo, il nervosismo e l’insistenza di Edo nei confronti di Stain. Era già emerso nel capitolo precedente, come se a tutti gli effetti Edo ormai abbia instaurato un rapporto paragonabile appunto a quello tra genitore e figlio. È come se Stain stesse diventando l’occasione per colmare un vuoto che Edo sente e sentiva già prima, al punto di non cogliere piu i confini che li separano. Ma forse è solo una mia sensazione.
Ciao, Dea. I commenti agli episodi aprono sempre nuovi fronti, traiettorie diverse, imprevedibili, che fa sempre bene riattraversare a una certa distanza dalla stesura e con una diversa consapevolezza. Come nel caso del passaggio del lume azzurro, che ho riletto più volte, per comprendere dove fosse l’elemento che evocasse queste suggestioni e risonanze così singolari. Eppure è una disposizione elementare, senza troppi ornamenti, forzature. Ho pensato anche al tempo futuro dell’accensione, come erogatore di una soglia di impossibilità o di irrealtà del momento che si descrive come immanente, pulsante in una dimensione non ancora tangibile o certificabile. Credo che da questo piccolo spunto, si delinei tutto il comportamento della serie, con i suoi versanti: il costante grado ipotetico che si frappone tra le intenzioni, le situazioni, le configurazioni introspettive dei personaggi in gioco, che sono sempre filtrati da un grado di possibile irrealtà, dalla presenza seduttiva di un fattore sovversivo di correzione che potrebbe spostarli dalla loro postazione verso territori ancora più ignoti e impenetrabili degli attuali. È proprio quello che tu hai colto in Edo e in Stain, nell’evoluzione del loro rapporto, che vive una progressione sempre più complessa, ossessiva, tortuosa, da entrambe le prospettive, e che interesserà simultaneamente tutte le arcate dimensionali del racconto, in più livelli di tempo, di intensità e di realtà, prima di convergere in un “unicum”, fonte erogatrice e sovvertitrice del tutto, da cui ogni equilibrio-squilibrio, avrà vissuto la sua genesi, il travaglio invisibile del suo mistero. Ancora un grazie per la tua preziosa attenzione.
P.S.
Condivido con te che il gesto sconsiderato del direttore della rivista non abbia proprio nulla di geniale. È solo banale, frutto di un rapporto con la poesia fatto di dominio, sopraffazione, esercizio disfunzionale di piccole astuzie, sotterfugi e ingiustizie.
“Io accenderò il lume azzurro sul mio tavolo e declamerò uno per uno i suoi versi, per valutarne l’effetto a distanza, il loro sapore, come la loro forza e intensità drammatica e sonora”: ho amato questo rituale! Dopo averlo letto, mi è rimasto in mente per tutto il tempo: fino alla conclusione dell’episodio non riuscivo a pensare ad altro. Complimenti, questa è una delle immagini che rimangono scolpite in mente.
Grazie, Arianna. Hai colto un momento di grande intimità luministica, dove ho concentrato le risonanze della poesia nell’ambiente, ma anche nell’immaginario della voce narrante, come se durante il suo resoconto ai suoi amici, il poeta le facesse proprie, espandendole anche nella camera d’albergo in cui si trovano. Mi fa davvero piacere che tu abbia colto questo piccolo squarcio a cui tengo molto, essendo insieme delicato e misterioso. Un saluto e a presto.