L’uccellino del cucù

Serie: Il buco nero


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Ritornai verso la pensione con i denti che mi battevano. Avevo appetito, nonostante l’angoscia. Immaginavo di ritrovarla vestita di tutto punto, al nostro tavolo accanto alla finestra, con il viso assonnato, un pullover bianco, la minigonna di lana, i capelli in un nastro azzurro da scolara.

La nostra prima colazione era il momento di maggiore intimità. Si parlava sottovoce, mezzi addormentati, mentre il fumo delle tazze ci trasformava nel crinale  di un paesaggio mesmerizzato, forse dallo sguardo di un airone o di una strega. Ritrovandola lì, le  avrei accennato dei miei programmi, un Natale a Torino, da mia sorella. Ma Elvira non si era mai espressa e nemmeno sottomessa a una scelta precisa. Riusciva a restare in un equilibrio delicato, indolore, tra la mia volontà e il suo adattamento a programmi di vita che non erano mai troppo comuni e sentiti da entrambi allo stesso modo, intrattenendosi con maggiore frequenza sull’uscio di un suo nulla, dove attraversava il muro estivo della formica e l’ infinito. 

Anche sua sorella aveva studiato, cercando inutilmente dei contatti, del lavoro, ma alla fine era rimasta con loro, accanto al fuoco, in attesa delle sue telefonate della sera. Faceva lezioni di matematica a una bambina delle elementari, ogni tanto un lavoretto saltuario, che non c’entrava con i numeri. Aveva studiato per un concorso straordinario, a cui non prese più parte per via di una febbre altissima. Un fatto nervoso, come dissero alcuni, nel giustificare la misteriosa coincidenza della data del concorso con la sua febbre, che durò i giorni necessari per tirarla fuori dal terrore della verifica, della competizione, che non le dava più pace, ormai.  Elvira me ne parlava spesso con un tono di amarezza e di malinconia, sperando che la vita di sua sorella si fosse districata dai suoi rami. «I rametti secchi di Arianna» mi diceva spesso, ma io non capivo a cosa alludesse.

Al nostro piccolo tavolo, consumavo la colazione nel silenzio perenne della sua attesa, come se l’avessi di fronte. La proprietaria non mi disse più nulla. Le domandai del marito, della caccia. Lei rimase distaccata, senza rispondermi.

Nella camera cercai di rintracciare i pochi indizi disponibili. Una sua lettera, un appunto scritto a penna, qualche sottolineatura tra le pagine di un libro. Ieri non ne avevo avuto la forza; ora c’era la disperazione a smuovermi. Accesi il suo telefono. Il mio lo lasciai spento. Non vi erano messaggi o chiamate sul suo. Tutto taceva. Come la neve, il bosco, la montagna. Oltre al suo telefono erano con me i suoi vestiti, le sue scarpe, la sua borsa, un cappello. Non mi restava che attenderla in camera, alla finestra, solcando con un dito la condensa dai vetri azzurrati.

Squillò il suo telefono. Feci un balzo. Il quadrante si illuminò sulla punta del suo letto intatto; io lo guardai, esitando. Dalla chiamata lessi il nome di Arianna. Poi entrai nel tunnel della sua voce irriconoscibile, trasfigurata dal mio stesso terrore. Si interrompeva di continuo. Era opaca, nebbiosa, senza fibra. Spensi il telefono. Lo riaccesi a distanza di minuti. Ero certo che avrebbe richiamato. Pensando alla mia resistenza nel chiarire lo stato delle cose, mi accorgevo che me ne sentivo responsabile, colpevole, pensando che avrei dovuto prenderla, torcerle un braccio, costringerla a rimanermi vicino e a non allontanarsi da me. Se le fossi stato accanto, fino alla svolta, al margine estremo della frana, non sarebbe accaduto niente. Nel tacere scomparivo, diventando complice del suo mistero, a cui non poteva imputarsi nulla. Sarebbe stata una possibilità: allinearmi ad Elvira, raggiungere lo stesso punto, o un altro, e lasciare che le mie tracce si disperdessero nelle sue. Sarebbe stato più semplice affrontare il carico della sua assenza stando dalla sua parte, quindi da scomparso. Lei era scomparsa da me, che le ero accanto, e dal suo paesino di formiche. Non ricordavo se avesse almeno un’ amica, ma era difficile che me ne parlasse o che sentisse una persona che non fosse la sorella, la madre o  il padre. O me. Non aveva modo né interesse di coltivare amicizie passate, o di trovarne di nuove. Io, al contrario, ero pieno di amici, ma non erano mai diventati i suoi. Secondo Elvira era giusto così, che le mie amicizie le tenessi per me, senza condividerle con nessuno, perché restavano un patrimonio dell’intimità. Ma a conti fatti il suo patrimonio finiva soltanto lì, con noi quattro. I genitori erano entrambi figli unici. I parenti erano pochi. A Torella erano rimasti da soli e non avevano voglia di interrompere la sacralità della loro solitudine. Elvira aveva mantenuto lo stesso riserbo verso un qualsiasi mondo estraneo alla traiettoria delle sue origini. Io ero l’attrazione; lei l’uccellino del cucù.

Per me lo scomparire avrebbe avuto un peso diverso, perché distribuito tra più persone – amici e parenti, alcune ex con cui ero in contatto – che avrebbero preso a cuore la possibilità di una mia improvvisa vacanza dal mondo reale. Adesso non mi rimaneva altro che il suo vuoto.

Uscendo dalla mia camera, portai con me entrambi i telefoni, il mio e quello di Elvira, ritornando a piedi sul posto della frana – un sagrato di soli spettri, immaginai. Tenevo la bocca socchiusa che tremava sulla sigaretta. Dovevo coprirmi la gola. Avevo lasciato la sciarpa in camera. Rimasi a guardare la casa che un tempo le apparteneva, divorata dalla furia incontenibile della vita materiale, che ci separava e confinava nella stessa scorsa, come il viso di una vecchia bambola dallo specchio crepato della sua credenza. Le scattai una foto col suo telefono. Poi scorsi nella mia rubrica tutti i nomi, in ordine alfabetico, sperando che qualcuno di loro mi istradasse verso una qualsiasi direzione. Dalla sera precedente mi ero mosso per inerzia, per pura sopravvivenza o evitamento di pericoli più grandi. Nulla di attivo e di vitale. Quando sua sorella si decise a richiamare, la sua voce era ritornata limpida, la comunicazione più stabile.

«Qualcuno ha telefonato per lei. Il nome non me lo ha detto. Era un uomo timido, con una voce sottile, mai sentita prima. Senza dialetto. Adesso dov’è?» mi fece. Le risposi qualcosa di astratto, che la convinse. Ebbi la sensazione che avesse fretta di andare, come se qualcuno le stesse accanto e la stesse incalzando, con le chiavi in una mano, il cappotto addosso.

Arianna non mi parve troppo interessata a sapere perché Elvira non fosse mai con me. Nel caso di una sua insistenza, potevo inventarmi una sua brutta emicrania. Non ne soffriva, ma le poche volte in cui ne era stata vittima in mia presenza erano state estenuanti e penose. Tenere con me il suo telefono sarebbe stato letto come un gesto di premura, per proteggerla da chiunque la cercasse, dicendo loro che la mia bambina sognata riposava e si sarebbe fatta viva solo domani. Nel pomeriggio, avrei potuto scriverle un breve messaggio, cercando di imitare il suo stile, in modo da procrastinare fino a sera l’esigenza di sentirla e di sapere come stava. Ma a un certo punto mi sarei dovuto arrendere. Non avrebbero retto le mie continue rassicurazioni che tutto fosse in perfetto ordine, anche senza di lei, quando non era così. Restavo l’unica persona a patire il privilegio del suo nuovo stato, pure se provvisorio, ma non mi ero deciso a svelarlo, come la scoperta di un carcinoma o dell’arrivo di un figlio non mio.

Ritornai alla pensione. La proprietaria era da sola, accanto al camino, con un golfino rosso dalle maniche vuote. Forzò un sorriso, chiedendomi cosa avessi deciso per la mia permanenza. Mi sedetti vicino a lei, guardando le fiamme vive nei ciocchi, il loro scoppiettio, e fui preso da un sovvertimento di pace, che mi portò a dirle che almeno per pranzo sarei rimasto da loro, ma ancora da solo. La donna non mi fece altre domande. Guardava le fiamme e poi parlava delle previsioni atmosferiche. Nel pomeriggio avrebbe nevicato. Era meglio rimandare a domani la mia partenza, soprattutto per le strade cattive, il tratto della frana, che era un passo obbligato per lasciare il paese, come mi consigliò, senza guardarmi.

Quando si allontanò, mi intrattenni accanto al fuoco, immaginandomi in un altro tempo della mia vita. «Persino il nostro passato» come mi disse una sera Elvira, nel buio della nostra camera – entrambi distesi, senza sfiorarci – «è intriso dello stesso mistero del nostro futuro, e non penso sia determinato e definito. Il passato potrebbe ancora muoversi, per ciascuno di noi, in direzioni impreviste.»

«Tu confondi col presente. Il passato è andato, ormai» e lei: «Solo se lo controlli e lo imprigioni. Altrimenti è una dimensione completamente nuova, che non conosci e non potrai mai determinare. Una sorta di esopianeta dell’essere». Poi, ricordo che mi diede le spalle e si addormentò. La guardai dormire, con la bocca socchiusa, le lunghe ciglia sognanti alla luce della lampada. Il suo pensiero riguardava qualcosa che ci avrebbe condotto al momento preciso che stavamo vivendo, ipotizzai. Forse lo aveva già previsto da quella sera, chissà.

Ripresi a scorrere con cura tutti i nomi dalla rubrica del mio telefono. Non li avevo mai contati, erano tantissimi. Potevo sceglierne uno a caso e comunicare su grandi linee delle grandi nevicate e della scomparsa improvvisa di Elvira, come della mia reazione del tutto sconsiderata all’imprevisto. Chissà se esisteva qualcuno in grado di spiegarmela. Forse l’uccellino del cucù.

Serie: Il buco nero


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Discussioni

  1. Eccomi qui al secondo episodio: comincio ad affezionarmi a questa Elvira! Mi è piaciuto molto il modo in cui parlava del passato e del tempo in generale (confesso di avere un’ossessione per il tempo, da quando ho scoperto che non scorre, ma si dilata).

    1. Mi sa che sei entrata in questa serie con la giusta modalità, con il mood più appropriato, aggiungerei, e ne sono molto felice.
      Le risonanze di un’assenza, su cui ho impiantato la struttura del progetto “Il buco nero”, sono aperte a tantissimi fronti e possibilità di lettura e sviluppo, che nemmeno a me, al momento, sono note, ma che attivano dei richiami affettivi profondi e riconoscibili, ai quali è difficile sottrarsi, come è accaduto anche a me con il personaggio impenetrabile di Elvira, che evoca fin dall’inizio, intorno a sé e al di là di sé, un sottile incantamento diffuso.
      Bellissima e stimolante la tua considerazione sul tempo in dilatazione: è un altro elemento nucleico del congegno su cui si articola e si (dis)organizza la serie. Grazie davvero della tua attenzione e del tuo bel commento. A presto – su questi schermi.

  2. Ciao Luigi! Ho letto questo secondo episodio con molto interesse. La tua scrittura resta sempre densissima, ipnotica. Non nascondo di aver spesso dovuto rileggere due volte alcuni periodi perché troppo affascinato dalla combinazione di certe parole. In questo caso il senso di mistero va oltre alla storia, ma è direttamente connaturato al tuo modo di narrare. Sarei curioso di conoscere i tuoi autori di riferimento: sono convinto che sarebbero per me un ottimo consiglio letterario!

    1. Ciao, Nicholas. Mi rincuora molto il fatto che la storia abbia fatto breccia nella tua sensibilità e che tu ne abbia colto la natura ipnotica, che riconosco profondamente e che ne rappresenta una componente essenziale, insieme a diverse ossessioni ricorrenti, che si avvicendano all’interno dell’ingranaggio e delle scelte stilistiche adottate. Lo sguardo di un lettore attento in primo luogo alla sostanza, al nucleo e al suono della lingua, la considero sempre una grandissima risorsa e un privilegio, specie in questa fase di rodaggio e di esplorazione di materiale ancora molto fragile e mutante. Per quanto riguarda i miei riferimenti letterari, è molto complesso operare una sintesi, o quanto meno illustrarti delle preferenze e quindi operare delle esclusioni, dal momento che nella mia ricerca esistono tantissimi affluenti paralleli, spesso sovrapposti, provenienti anche al di fuori dell’ambito specifico della letteratura, ma di tantissime altre forme artistiche, o comuni, e anche della realtà e dei suoi messaggi. In ogni caso, però, posso dirti, a proposito di ossessioni e di ipnosi, alcuni degli autori che sento sempre molto presenti e che rappresentano un punto di non ritorno, una bussola per la mia configurazione e formazione.
      Tra questi ti posso citare senza alcun dubbio, e in una progressione molto anarchica, quanto autentica, però: Patrick Modiano, Thomas Bernhard (anche nella sua produzione poetica e teatrale) Mario Vargas Llosa, Javier Marías, Jerzy Kosinski, Witold Gombrowicz, Henry Miller, Joyce Carol Oates, Shirley Jackson, Bret Easton Ellis, Flannery O’Connor, Shirley Jackson, Roberto Bolaño, Clarice Lispector. Tra gli scrittori italiani Beppe Fenoglio, Cesare Pavese, Mario Soldati, Giorgio Bassani, Natalia Ginzburg, Carlo Levi, Silvio D’Arzo, Cristina Campo, Goliarda Sapienza, Elsa Morante. Tra i poeti Alfonso Gatto, Attilio Bertolucci, Eugenio Montale e ancora tantissimi altri. Un saluto e buona scrittura – e lettura, naturalmente, che rimane l’atto più edificante e creativo. A presto.

      1. Caspita! Ora capisco il motivo dello spessore di questo tuo scritto. Molti degli autori citati sono nella mia lista (ho un metodo tutto mio di lettura). Per quanto riguarda Bernhard, una volta letto non lo si può ignorare, nel bene o nel male. Qui sulla piattaforma ho scritto un racconto tutto nel suo stile, ispirato al romanzo Correzione. Credo che nella vita di un lettore esista una progressione di autori capaci di schiudere porte su nuovi livelli di narrativa: Bernhard, per me, è stato l’ultimo in ordine cronologico. Ho quasi paura di sapere chi sarà il prossimo, e soprattutto come ci riuscirà😊

        1. Credo che “Correzione” sia un romanzo emblematico, quanto caratteristico della sua poetica e delle diramazioni linguistiche e labirintiche che la suggellano. Mi sa di averlo riletto, in un’edizione Einaudi, quasi quanto “Perturbamento”. Molto contento di queste affinità. Ne riparleremo. Un saluto.

    1. È molto bella questa dimensione che hai colto, Roberto. Mi ci rivedo molto. Mi riporta a Camus: Solitaire/ Solidaire. Probabilmente sono questi due archetipi che si osservano e in parte si annullano, lungo il primo corso della dorsale. Ancora grazie della tua preziosa suggestione.

  3. “come la scoperta di un carcinoma o dell’arrivo di un figlio non mio.”
    Trascorrere il tempo accanto a tuo protagonista non stanca, al contrario incuriosisce. Un lunghissimo monologo frastagliato di azioni quasi sincopate, al limite dell’incoscienza che si mescolano ai pensieri, tanti, tantissimi, eppure ordinati. Sono molto affascinata dalla figura quasi misteriosa della proprietaria della locanda. Lei, la moglie, un mistero…

    1. Ciao, Cristiana. Ci tengo a dirti che mi colpiscono sempre moltissimo le tue risonanze, ricche di sostrati e di un ascolto sensibile, attento, direi creativo. Te ne sono profondamente grato. Ti sei orientata verso le zone più invisibili che costellano il progetto, che è fatto soprattutto di parti non scritte, situate dalla parte del vuoto. Avverto che tutto ciò che vi accade all’interno è sempre leggermente fuori fuoco, come in una foto di classe in cui una persona stenta a riconoscersi per il passaggio del tempo, o perché durante lo scatto aveva il sole negli occhi o la spalla di un compagno più alto sul sorriso. Ogni elemento della storia scompare e riappare in un suo costante controluce dove sto cercando una strada, o forse proprio l’uccellino del cucù. Quel passaggio è davvero cruciale. Hai colto nel segno.
      Grazie tantissimo della tua preziosa presenza. A presto.

  4. “Riusciva a restare in un equilibrio delicato, indolore, tra la mia volontà e il suo adattamento a programmi di vita”
    Hai davvero colto nel segno…Quante volte la donna resta in quella sorta di ‘equilibrio’ in cui stanno tutti davvero bene. Tranne lei.

    1. Molte, troppe volte, direi. Sono contento che tu abbia riconosciuto la giusta radiazione del passaggio. Mi incoraggia e nel contempo mi responsabilizza. Ed è un bene, naturalmente.

  5. “Una sorta di esopianeta dell’essere.”: una frase davvero molto suggestiva.
    È interessante il significato del titolo, svelato all’interno del capitolo. In generale, la storia si prende i suoi tempi, con un ritmo lento e incentrato sull’introspezione del protagonista.
    Molti passaggi sono veramente belli e significativi, ma ho come l’impressione che, talvolta, ti lasci prendere un po’ la mano, più o meno inconsciamente, usando delle allegorie e delle similitudini che, sfociando quasi nel surreale, non sono facilmente comprensibili e eccedendo nelle descrizioni e nelle riflessioni personali del protagonista. Questo porta a rallentare eccessivamente il ritmo della storia e fa perdere quell’impatto emotivo su cui, invece, si basa il testo.

    1. Sì, ti seguo perfettamente. Rifletterò all’occorrenza su questi aspetti e ti ringrazio per gli elementi che ti hanno suggestionato in positivo. C’è da dire che tutto il lavoro è assolutamente surreale e quindi si innesca in un dispositivo che contempla determinate diramazioni, che ahimè… sono parte, direi insanabile, della mia natura più intima e del mio comportamento linguistico. È un po’ come il tono della voce, il colore degli occhi, lo sguardo sulle cose, le emozioni, il modo di sentire la realtà e trasferirla nella lingua e viceversa. La mia tendenzialmente è così. Tutto si può affinare e maturare, naturalmente.
      Farò in ogni caso tesoro della tua lettura. Ancora grazie e a presto.

  6. Qui la scrittura diventa più decisa ed incalzante. E questo finale così distaccato mette suspence e curiosità. Felice di leggerti Luigi

    1. Grazie di cuore, Fabrizia. Hai colto bene: in questo episodio il livello di realtà, rispetto ai tratti sfumati del precedente, comincia a radicarsi nel vissuto – e di conseguenza il linguaggio. Dallo svanimento inatteso, etereo, a una prima elaborazione delle conseguenze nella vita reale del personaggio, ancora presente a se stesso, sebbene orfano di una sua parte. A presto.