L’UFFICIO DELLE COSE CHE NON SI CHIEDONO

Di giorno timbro. Timbro e guardo la gente che chiede certificati come pezzi di sé persi per strada. Stato civile, residenza, certificati cumulativi. Ognuno viene con una faccia per l’impiegato e una per il mondo: io vedo sempre la prima. Quella che non serve a niente quando torni a casa.

Mi chiamo Fabio, quarantanove anni, scrivania tre del secondo sportello, Ufficio Anagrafe. Camicia azzurra col colletto che gratta, penna legata con lo spago, timbro che morde l’inchiostro. Sul monitor finestre grigie: ogni finestra è un corridoio senza finestre. Mi tiene vivo il click quando va a buon fine.

Non mi sono sposato. A vent’anni dicevo “aspetta”: volevo una stanza, un lavoro, un’idea di me. A trenta avevo stanza e lavoro, non l’idea. A quaranta l’“aspetta” era già “scusa”.

Ho capito di non saper tenere vicino guardando mia madre rifare il letto di mio padre anche dopo che se n’era andato. Tirava le pieghe con due dita dure, come se la precisione potesse riportarlo indietro. Io ho fatto lo stesso con la vita: tirata ben tesa e mai dormita davvero.

All’ufficio ho la mia liturgia: 8:20 vetro, 8:25 moduli B12, 8:28 gomma del timbro, 8:30 serranda; la sala d’attesa fa un respiro, pensa “tocca a me”.

C’è un ragazzo coi capelli troppo puliti che ogni venerdì chiede un duplicato della carta d’identità. Fa finta di perdere tutto, ma perde solo tempo. Una donna anziana porta una busta di plastica con dentro fogli non suoi: «Sono di mia cugina, è morta, li tengo io». Un uomo alto chiede “stato di famiglia” col tono di chi chiede perdono. Io li timbro. Avanti il prossimo.

Quando non c’è nessuno guardo le piante finte sopra gli armadi. Polvere sulle foglie alte; le basse sembrano nuove. Mi riconosco: pulito dove mi si vede, grigio dove si sale col dito. Una volta ho provato a spolverarle. «Non è competenza tua», ha detto la caposettore. Da allora me lo ripeto quando la mano parte da sola.

A casa nessuno accende la luce prima di me. Il pianerottolo sa di verdura bollita e candeggina pigra. In cucina il frigorifero fa un ronzio che a tratti si ferma: il dopo mi fa compagnia. Ho tre piatti uguali, due bicchieri, una pentola che ha imparato la mia pazienza. Mangio in piedi: la sedia chiede conversazione.

Di notte sogno una spiaggia d’inverno col vento che mette in riga la sabbia. Al risveglio resta il vento, non i volti.

Una volta all’anno compro un biglietto del treno per una città nuova. Poi lo guardo scadere sul tavolo come un frutto che non mangi per non farlo finire. Penso: l’anno prossimo.

Al lavoro c’è Teresa: due figli, capelli raccolti male, un elastico che spesso si spezza e lei se lo riannoda al volo. Mette musica bassa prima di aprire. I nomi sfilano dal suo sportello come pesci in corrente: lei non li trattiene, li accompagna. Un giorno: «Fabio, tu guardi dritto ma non vedi». «Mi basta timbrare giusto». Non era vero.

Con la gente parlo poco. Cortesie d’ufficio. Le frasi che vorrei dire si fermano dietro i denti come trolley senza ruote. Un ragazzo chiede: «Posso fare il cambio residenza anche per la mia compagna?» Vorrei dirgli: «Certo. E chiedile come si sente». Timbrato. Avanti.

Bambini col nonno per la carta d’identità: mani appiccicose, fronte calda. Guardano l’obiettivo come un dio freddo. «Non ridere», dice il nonno, e ridono di più. Scatto. La foto viene storta. La rifaccio. Nel mentre, il mondo si ricorda cos’è.

In archivio ci sono scatole con dentro persone. Odora di carta e tempo; il neon trema. A volte mi siedo su uno scatolone e sto. Non penso. Non guarisco. Sto. È la mia competenza.

A quarantasette mi sono iscritto a un corso di tango. «La spalla bassa», diceva la maestra. «Guarda dove vuoi andare». Io guardavo i piedi. Ho smesso alla terza: il mio corpo non sa dove mettere gli altri. Il cuore nemmeno.

Sogno una donna che non ho mai incontrato: di spalle, la nuca che chiede fiducia; mani screpolate di chi lava i piatti; un cappotto che sa di pioggia, pane, un’ombra d’arancia. Mi sveglio con la gola piena d’acqua.

Ci sono giorni in cui la città non si allinea. Clacson che si richiamano come uccelli scemi. Mi ripeto che faccio la mia parte: timbro i confini degli altri mentre i miei restano sfocati. È un mestiere. Non una vergogna. Lo dico con la voce di qualcuno che mi voleva bene e non c’è.

Una mattina entra una signora con una busta rigonfia. Le dita tremano. «Cambio residenza per mio marito. È… a pezzi. Io no». Lascia una foto: loro due, giovani, un mare cattivo dietro. «Basta fare le cose in ordine, poi si sta meglio», dice. Penso: a volte l’ordine è una posa. Timbro “Ricevuto”. La foto mi resta negli occhi come una briciola. Nel pomeriggio prendo un succo d’arancia come se avessi sete da giorni.

Quando piove, la fila diventa un animale bagnato. Odora di lana mediocre e giornali vecchi. Allungo il braccio oltre il vetro e prendo i fogli senza far cadere le gocce. Quel gesto non salva, ma asciuga.

Una sera Teresa al portone: «Vieni a bere una cosa con noi». Dico «no». Poi il suo sopracciglio aspetta un sì piccolo. Dico: «Un caffè». Al bar racconta del figlio che si vergogna degli occhiali. Io rido di naso. Lei mi guarda come si guarda uno che è caduto e non dici «alzati». «Tu sogni ancora?» «No». Mento. Lei annuisce. Beviamo in silenzio.

A casa stendo i calzini marroni come bandiere di un paese che nessuno visita. Asciugano in fretta. Io no.

Il corpo però ricorda. In autobus ho sfiorato la mano di una sconosciuta sul corrimano. Un lampo senza tuono. La scossa è rimasta per giorni: non come mancanza, come prova.

Ogni tanto riapro un fascicolo vecchio. Un nome mi è rimasto: Aurora Piazzolla. Cambio di residenza per “convivenza affettiva”. Nel campo note scrissi: “a mano: sorridono”. Anni dopo vorrei chiedere al sistema: “Stanno bene?” Per un attimo mi pare di vedere un riquadro grigio — BENESSERE: ____ — poi sparisce. Il gestionale non ha quel campo.

Una notte non dormo. Esco. La città sa di metallo bagnato. Ai semafori nessuno. Davanti al mare, una striscia scura che finge di respirare per me. Penso a mio padre che stringeva le viti più del necessario e a me che ho stretto tutto senza fissare niente. Penso: domani compro un biglietto. Poi rido. «Non domani. Adesso».

In tabaccheria il neon vibra. «Roma? Milano?» «Trieste», dico. Esco col biglietto in tasca come un termometro buono. Al portone il passo non corre e non trascina. Sta.

All’ufficio, il giorno dopo, timbro come sempre. Una signora mi dice «grazie» come ai salvataggi. Teresa mette la musica bassa. Un ragazzo appoggia la fronte alla vetrata, stanco. «Prenditi il tuo tempo», gli dico. Mi esce bene.

La sera preparo la borsa. Due camicie, la camicia buona, il pettine corto di mio padre, un libro lasciato aperto per anni a pagina trenta. Spengo la luce. Il frigo fa il suo respiro. Io il mio.

Non so amare come nei manuali, ma stanotte sogno una donna col cappotto di pane e pioggia. La seguo a distanza, senza perderla. Mi sveglio col vento nella bocca. Non dico “domani”. Dico: «Andiamo». Sul tavolo il biglietto è freddo. Appoggio il pollice come sul modulo: un odore blu di inchiostro, ferro e gomma. Tac. Il mio sì scende netto: non certifica niente e basta a me.

All’uscita chiudo la porta. Nel corridoio candeggina pigra e qualcosa di nuovo che non so nominare. Scendo le scale. Guardo dove voglio andare.

Avete messo Mi Piace4 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Una solitudine che accetta i propri limiti e vuole restare tale. Questa è la sensazione che ho avuto leggendo. Come se il protagonista fosse una sorta di “prigioniero consapevole”. Poi appare in sogno questa donna, e sul finale il passo sembra farlo davvero. Mi ha piacevolmente sorpresa. Chissà se davvero da domani cambierà qualcosa.

    1. La solitudine non sparisce, ma sposta la sua soglia di un millimetro. La donna in sogno è più possibilità che persona, un promemoria di ciò che potrebbe essere. Il passo finale non è salvezza: è un “andiamo” detto a se stesso. Domani non cambierà il mondo, forse cambia lui di un poco. E a volte basta.

  2. Una scrittura intensa, capace di trasformare la quotidianità più grigia in immagini cariche di significato. Ho sentito forte la solitudine di Fabio, ma anche il suo bisogno di connessione e di riscatto. Il biglietto per Trieste sembra aprire uno spiraglio a un nuovo capitolo.

    1. Grazie! Hai letto esattamente ciò che volevo: la solitudine che punge e, insieme, la voglia di riscatto. Trieste non è una bacchetta magica; è uno spiraglio, un “sì” minimo ma vero.

  3. Anch’io, come Corrado, ti chiederei una seconda parte, per sapere se, davvero, ci sarà un cambiamento nella vita di Fabio che possa spezzare la solita routine quotidiana, i soliti gesti meccanici, del timbrare o stendere i calzini in file ordinate. Lasciarsi dietro le spalle le solite finestre grigie e il rumore rassicurante dei click come unica forma di vitalitá, per cambiare aria, lontano dagli odori di cucina e candeggina pigra. Un viaggio, finalmente, e un incontro sconvolgente, con uno/a sconosciuto/a per uscire dalla sua condizione solitaria. Ma forse, anche in questo caso, il garbato ed efficiente impiegato dell’anagrafe, fuggirebbe via, per paura di soffrire, per non rischiare di essere abbandonato e di ritrovarsi in un altro letto vuoto, come quello lasciato dal padre.

  4. “Un libro lasciato aperto per anni a pagina trenta”: bellissima metafora della vita del protagonista, che forse è un uomo che ha paura d’amare oppure un perfezionista che cerca la sua donna ideale senza provare, perché ogni prova fallita sarebbe uno sbaglio. Il finale lascia però sperare in una decisione di cambiare vita. Bravo, Lino… stavolta non ho sbagliato nome🥵

    1. Hai letto benissimo quella “pagina trenta”: è il segnalibro piantato dalla paura (e dal bisogno di controllo), più che dal perfezionismo. Nel finale non diventa un eroe: sposta il dito di una riga, mette la pagina 31. Poco, ma reale.

  5. Una narrazione intrisa di sentimenti di solitudine (forse è solo una mia sensazione, non so), ma anche di desiderio di connessione e ricerca d’identità.
    Fabio sembra intrappolato in una routine grigia ma a tratti esce fuori il suo desiderio di qualcosa di più che sembra culminare con la decisione di iniziare un nuovo capitolo della sua vita altrove (Trieste) ma lo farà? O sarà come le piante finte sopra gli armadi: pulite e ordinate all’esterno ma grigie e impolverate all’interno?
    Sarebbe bello un continuo
    Grazie per la bella lettura

    1. Grazie davvero per lo sguardo. Sì: solitudine e desiderio di connessione sono le due correnti che tirano Fabio. Trieste, per lui, non è una fuga romantica ma un gesto minimo e concreto: un “sì” timbrato su di sé più che un altrove risolutivo. Le piante finte sono la sua paura, pulito fuori, polvere dentro, ma quel “prenditi il tuo tempo” e il biglietto sono il primo colpo di straccio.