MAGAZZINO
Era agitato, come la volta scorsa.
Si presentò cinque minuti dopo l’ora concordata. Premette il pulsante del citofono senza ottenere alcuna risposta. In seguito a qualche istante, la serratura del portoncino si aprì con uno scatto. Sobbalzò. In casa era sola? Pochi secondi e gli comparve dinnanzi. Se l’era figurata proprio così, inclusi i polsini con le borchie. La t-shirt nera, attillata, dalla scollatura lieve, accentuava l’ancora incerta dimensione del seno. Aveva la sua solita espressione assente, come se guardasse senza alcun trasporto un punto lontano nello spazio. La massiccia quantità di eyeliner non faceva che rabbuiarle ulteriormente lo sguardo, annullando anche il più misero slancio di partecipazione. Quando gli venne vicino, il suo olfatto fu stuzzicato dalla fragranza chimica dello shampoo per capelli, questi ultimi, tinti di nero, le si distendevano ordinati lungo il volto.
La visualizzò di fronte allo specchio, piastra in mano, attenta alla sua immagine riflessa, nell’atto di seguire le giuste traiettorie per rendere l’acconciatura un manto uniforme vellutato e quasi luccicante. Una delicatezza che velava un cuore di rigidità.
Si scambiarono dei bacetti sulle guance. Lui, una spanna più alto di lei, le appoggiò una mano sulla spalla. Lei rimase immobile. Un sorriso le comparve sulla faccia, spontaneo e fugace, innocente nella sua perfidia.
Di cos’altro era capace?
Folate di vento caldo stemperavano l’immobilità dell’afa, era giugno inoltrato. Nella via, fuori dalle villette a schiera e dai piccoli condomini di recente costruzione, non circolava nessuno. Un gatto dal pelo interamente grigio di dimensioni notevoli stava accucciato all’ombra di uno dei seggiolini della giostrina per bambini posta nell’unico spazio verde in tutto l’isolato. Pareva li spiasse.
Presero a camminare. Lui pronunciò una frase, facendo una battuta. Superarono l’isolato, ritrovandosi sulla strada provinciale che spezza il paese in due blocchi di abitazioni. La percorsero in direzione del centro, rimanendo sul marciapiede. Lei procedeva con movenze pigre e composte, muovendo le gambe e coordinando i gesti con fluido automatismo, ogni passo sembrava calibrato con cura. L’avvicendarsi dei suoi movimenti era lo spettro di una grazia indolente. Lui trovava che tenere quel ritmo fosse un’operazione snervante. Le suole delle sue scarpe strascicavano sull’asfalto come un’ombra.
– Magazzino? – Domandò lui.
– Fa come vuoi – rispose lei.
Giunsero in centro. Il traffico procedeva a rilento, le auto erano ostacolate dal semaforo dei lavori in corso di fronte alla banca. Un intero senso di marcia era bloccato. Oltre la griglia metallica che delimitava la zona interessata dai lavori, un operaio, a prima vista più o meno dell’età di lui, premeva le mani su un martello pneumatico. Statura bassa, un po’ tarchiato. L’abbronzatura metteva in risalto un corposo fascio di muscoli. Lei si portò le mani alle orecchie e contrasse le labbra di riflesso, in reazione all’impatto di quel suono così affilato e deflagrante. Non rivolse al cantiere alcuna occhiata. Lui fissò l’operaio con espressione torva.
Svoltarono sulla destra, in una traversa poco più avanti. Un’enorme chiazza d’acqua era estesa da una parte all’altra della strada. Nell’aria c’era un odore simile a quello dell’asfalto dopo una lunga giornata di pioggia. Lui sollevò lo sguardo, incrociando quello di una signora sporta dalla ringhiera di un balcone del palazzo che stavano costeggiando; la signora si ritrasse e rientrò in casa.
– Cazzo di vecchia – disse lui.
Lei lo guardò senza dire niente.
Lo spiazzo antistante il magazzino aveva l’aspetto di un tappeto recuperato da una discarica: in certi punti l’erba rinsecchita raggiungeva le caviglie, in altre zone emergevano squarci di terra arida. Si sedettero su una panchina posta all’estremità dello spiazzo. Dall’altra parte, dei ragazzini giocavano a pallone. Lei ne riconobbe uno, era il fratello di Sonia, di due anni più piccolo.
Lui le porse una sigaretta. Sotto la leggera maschera di fondotinta, la faccia di lei era inumidita da una sottile patina di sudore, appariva lucida. Accesero le sigarette e iniziarono a fumare, restando in silenzio. Due dei ragazzini si voltarono a guardarli per un istante, poi si immersero nuovamente nel gioco.
Il magazzino, un’imponente struttura metallica dalla forma arcuata simile a quella di un tendone per manifestazioni, era in disuso da qualche anno. In precedenza aveva svolto la funzione di luogo di stoccaggio per il materiale destinato a vari negozi di una catena di mobilifici della zona, la quale era poi fallita.
– Ma… Quello là non è il fratello della tua amica? – Domandò lui, riferendosi a un ragazzino in carne con una chioma di capelli scuri cespugliosa.
– Mi sembra. Comunque io e Sonia non è che siamo amiche – rispose lei.
– Ah, scusa… Cioè, pensavo che… Sai, l’altra volta c’era pure lei… – Disse lui, farfugliando. Nella sua bocca non c’era più traccia di saliva.
Lei si destò dal torpore e lo puntò, chiedendogli con un piglio deciso che lo colse di sorpresa in quale occasione fosse presente Sonia.
– Boh, a casa di Yuri, tipo un mese fa.
– Ah sì. Ma non ce l’avevo portata io – disse, rilassandosi e riacquisendo il suo tono di voce abituale.
– E comunque io e Sonia non siamo amiche – concluse, gettando il mozzicone ancora fumante in terra. Poi si alzò lentamente dalla panchina.
Si diressero verso l’ingresso, privo di porta. Una volta penetrati all’interno, li avvolse un calore denso e statico che acuiva il già pesante odore ferroso presente nell’ambiente. La pavimentazione era un cimitero di vario tipo di materiale sparso, perlopiù minuscoli frammenti di vetro e intere parti di mobili, soprattutto ante, gambe e maniglie. Dalle feritoie senza più finestre poste lungo i lati, la luce solare spirava in lunghe scie coniche, illuminando trasversalmente la struttura. Si sedettero a terra, contro la parete sul fondo dello stabile; adesso entrambi avevano la faccia rigata da rivoli di sudore.
Lui estrasse dalla tasca dei jeans un involto di carta. Lo aprì, la mano gli tremolava; non si rese conto che lei lo stava fissando con un’aria carica di perplessità. Cercò di irrigidire i muscoli del braccio nel tentativo di arginare quel tremolio imbarazzante, dopodiché aspirò una lunga boccata d’aria al fine di quietare il battito cardiaco fuori controllo. Doveva tranquillizzarsi.
– Fai tu – disse a un tratto, spingendo l’involto aperto verso di lei.
Poi si accese un’altra sigaretta, distese le braccia lungo il corpo, avanzò con il sedere in modo da ritrovarsi quasi sdraiato, avrebbe volentieri bevuto dell’acqua, o qualsiasi cosa. La guardò seduta a gambe incrociate, coperte solo dalle calze a rete, chinata in avanti, intenta a smanettare con la tessera sanitaria e una banconota da cinque euro arrotolata, e avvertì un primo accenno di erezione. Fu colto da un tremito nel momento in cui lei, con uno scatto, riacquistò la posizione semieretta, tenendo il capo rivolto verso l’alto e rilasciando un sospiro liberatorio dalla bocca.
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