
Manuel
Manuel non aveva mai conosciuto suo padre, ma adesso che era grande non ne sentiva più la mancanza. Tra mille difficoltà, mamma Iole aveva cercato di farlo crescere sano e buono.
Manuel si era fatto tatuare un giaguaro sul polso destro e un serpente sul collo che esibiva con fierezza.
Non aveva tanti scrupoli, perché la vita non ne aveva avuti con lui; e non aveva paura, perché i muscoli
che allenava nella palestra di boxe, lo facevano sentire forte e difeso.
Di sera, spacciava droga, all’angolo di un malato cespuglio di ortensie, nei giardini comunali, dove le aiuole erano senza erba e gli alberi con le foglie gialle, anche a primavera. A notte fonda, tornava a casa con la pancia piena di hamburger e la tasca dei pantaloni soddisfatta della paga del boss, per lo smercio della roba.
Sua madre, ormai rassegnata, non riusciva più ad aspettarlo in piedi, ma si appisolava, sobbalzando ad ogni rumore che sperava fosse il ritorno del figlio a casa. Abitavano in fondo ad un vicolo senza uscita, a ridosso della periferia e con la campagna che si affacciava sulla finestra, a piano terra della cucina. Dall’altra parte della strada, una casa ad un solo piano con un pezzo di terra recintato che veniva usato come cuccia a cielo aperto. Bobi era un cane nero, senza origini e senza carta d’identità, che abbaiava ad ogni cosa che si muovesse o facesse rumore, addirittura a se stesso, pur di parlare con qualcuno.
Manuel, come le altre notti, anche quella notte, si rintanò nella sua camera, senza badare a fare silenzio. Ma, subito dopo, ne uscì di corsa.
C’era la luna piena, ma i lupi non le abbaiavano, perchè bastava Bobi a farlo. In quel momento, Bobi stava parlando ad alta voce con un gatto di passaggio. Abbaiava e abbaiava. Poi, tacque.
Iole, rimase di pietra, muta e con le mani sul viso, nel vedere un serpente chino su una testa nera e un giaguaro che, dopo aver colpito con una zampata, rientrava veloce in casa.
«Perché l’hai fatto?» gli chiese, in una lacrima di voce. «Così, l’ha finita di rompere le palle!» le rispose pulendo il coltello a serramanico, ancora sporco di sangue. Iole agì d’impulso, colpendolo con uno schiaffo. Manuel rimase fermo, a guardarla sparire nella curva del corridoio. La notte era piccola, quando i lupi corsero a nascondersi nella foresta, al riparo dalle prime luci dell’alba che scoprivano la macchia nera di Bobi, fermo in una pozza rossa.
Al mattino di qualche giorno dopo, Manuel si accorse che il letto di sua madre era vuoto, che nell’armadio mancavano dei vestiti e che la valigia nello sgabuzzino non c’era più. «Per un cane, mi ha abbandonato!» mormorò tra sè, riempiendosi la bocca di un frullato di proteine del latte.
Nel tempo il cespuglio di ortensie appassì, lasciando sul terreno le misere tracce della sua vecchia presenza. Al suo posto, un cespuglio di fiori gialli che Manuel non vide né piantare nè crescere, perché chiuso tra quattro angoli di una stanza senza quadri alle pareti e con un buco di finestra che si affacciava su un altro buco di nulla.
A volte, cercava il viso di sua madre che però rimaneva sfuocato e senza espressione. Altre volte, immaginava di vederla ad un passo di distanza, oltre le sbarre della cella, e di correre per abbracciarla, ma un cane nero gli ringhiava contro e non lo lasciava avvicinare.
Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Un racconto d’impatto, seppure breve molto incisivo
Breve e di impatto. Mi è piaciuto ❤️
Innanzitutto, grazie per il commento. Rintanare: Volevo renderlo impersonale, ma ti do ampiamente ragione.
“Bobi era un cane nero, senza origini e senza carta d’identità, che abbaiava ad ogni cosa che si muovesse o facesse rumore, addirittura a se stesso, pur di parlare con qualcuno.”
Questo passaggio mi è piaciuto
“rintanò”
Si rintano’
“Iole”
Tra mamma e Iole metterei il punto.