Marilù
Senza una casa decente da poter mostrare. Senza un portafogli da poter aprire per comprare qualcosa che non fosse strettamente necessario. Con la barba trasandata e con i capelli da acconciare, Luigi girava da una parte all’altra della città. Chilometri di strada camminati dalla periferia, fumosa e grigia, al lungo fiume, con i suoi prati verdi e ben curati, e con i suoi lampioni liberty. Camminava, camminava Luigi, per non restare seduto sulla lancetta delle ore, a guardare girare quella dei minuti, in senso antiorario, su una circonferenza da cui affioravano archi di memoria di un passato in cui le giornate avevano la mattina e il pomeriggio occupati dal lavoro e la sera e i fine settimana da spendere in una vita normale, con i suoi punti interrogativi, ma anche con suoi punti fermi. Si muoveva, si muoveva Luigi, per mettere l’affanno ai pensieri, per zittire quelli con le unghie affilate che gli graffiavano le cicatrici per ferirle di nuovo! Quei pensieri che lo tormentavano, che avrebbe sputato nelle fauci di un cratere dalla lava incandescente, se fosse riuscito a masticarli e non solo ad averne in bocca l’ amaro sapore.
Da quando aveva perso il lavoro, non si guardava più allo specchio; rifuggiva le vetrine che incontrava per la strada; persino, quando incontrava degli occhiali, abbassava o girava la testa, per non rischiare di vedersi riflesso nelle lenti. A poco a poco, si era dovuto convincere che la sua realtà era quella di dover fare i conti con quel poco che aveva, per non trovarsi a chiedere la pietà in giro. Però, gli era deprimente, subire gli sguardi di commiserazione, che gli piovevano addosso come grandine appuntita, dovunque andasse; gli era disarmante, accorgersi che la sua voce, per quanto normale, arrivasse debole, fiacca, addirittura muta, agli orecchi della maggior parte delle persone, perché l’abito lo faceva sembrare un mendicante e questi emette suoni che non hanno dignità di essere ascoltati.
Anche la compagna lo aveva lasciato. Un litigio e via di casa, a doversi cercare una locanda. Un letto, in una fila di quattro, con altrettanti comodini dalle antine che battevano sugli stipiti, anziché chiudersi del tutto. Un armadio, diviso in quattro scomparti, che non sarebbe bastato ad una sola persona, se avesse avuto un po’ di roba più dell’essenziale da riporre dentro. Una finestra senza cielo che, però, questo si sarebbe potuto vedere, se si fossero lanciati gli occhi oltre i balconi che si arrampicavano per la facciata del palazzo.
In quella domenica di Pasqua, c’era una folla di veicoli, parcheggiati anche sui marciapiedi, e un traffico di gente che tappezzava le strade del centro con i loro vestiti della festa e con i variopinti involucri delle uova di cioccolato. Luigi prese subito il viale, a ridosso delle mura antiche della città. La sua notte era trascorsa tra l’alternarsi di brutti pensieri, che lo avevano tenuto sveglio, e la stanchezza, che lo aveva fatto dormire, prima che i pensieri riprendessero il sopravvento. Aveva una lampada accesa, quel giorno, su un unico pensiero che, per quanto cercasse di far rotolare nell’ ombra, la luce lo teneva prigioniero: un ritornello che gli ripeteva quanto fosse carogna la vita a dare un po’ di respiro, per toglierlo di botto, per fare più male. Prima, una vita decorosa e, dopo, la crisi economica che gliela aveva tolta. Già, era colpa della crisi, se si trovava in quelle condizioni, e allora? Non cambiavano gli effetti, sulla sua pelle. Ma, quel giorno, non era soltanto lo sfogo ad avere spago. Quel giorno, le pale del mulino giravano controvento. La macina non pressava il grano per farne farina, ma i chicchi, che dalla tramoggia le cadevano addosso, faceva sbattere contro le pareti della cassa di raccolta, per frantumarli e basta. Ad un certo punto, le mura lasciarono spazio al vecchio ponte che teneva insieme le due rive. Inciampando in una buca del selciato, Luigi si rese conto di avere le scarpe rotte. Se le guardò, pensando che non poteva più camminarci dentro. Fu la goccia che, cadendo, si tirò dietro tutto il resto. Appoggiato al parapetto del vecchio ponte, cominciò a piangere. Il fiume raccoglieva il suo pianto, mentre il sole lo fotografava ma non riusciva ad asciugarlo, perché un’altra lacrima scendeva a bagnare quella che era appena scesa. Il traffico scorreva, veloce e fermo, seguendo il ritmo dei colori del semaforo. Il ponte era alto abbastanza, per buttarsi in un tuffo senza ali. Luigi ci mise un attimo a pensarlo e qualche secondo per prepararsi a farlo. Si passò una mano sugli occhi, per levare le lacrime e vederci meglio, e si piegò sulle gambe per darsi lo slancio.
«Perché piangi?» gli domandò un ragazza che si chiamava Marilù, che era nata con due occhioni blu che facevano rima con il suo nome. Due occhioni blu pieni di luce, ma che non potevano vedere, perché erano ciechi. Luigi la guardò, mentre ella picchiettava sul muretto con il suo bastone bianco, e le sorrise, rimettendosi dritto. «Allora, perché piangevi?» insistette, senza pretesa di aver risposta.
«Per pulirmi gli occhi.»
«Sai, anch’io lo faccio, quando sono stanchi di guardare solo se stessi e si sporcano di tristezza.»
«Ti capisco. Io lo faccio, quando vedo nero. Oh, scusa non volevo…» Marilù non ci diede peso: «Mi aiuteresti ad attraversare la strada, perché non ho voglia di arrivare fino alle strisce pedonali e non mi fido a farlo da qui. Ti dispiace?» disse con una dolcezza tale che sarebbe stata una grande perdita, non averla potuta ascoltare.
«Non c’è problema, lo faccio volentieri» rispose Luigi, affrettandosi a scendere dal muretto.
«Lo sai che è pericoloso quello che hai fatto e che potevi cadere di sotto?» aggiunse lei, prendendolo a braccetto. «Hai ragione, non lo farò più» rispose Luigi, nascondendo la commozione di quel contatto pieno di calore.
Lungo il viale, i tamerici parevano dame vestite di rosa che salutavano con riverenza. Le mura antiche erano alte, ma non tanto da nascondere il cielo che, bastava alzare la testa, per vederlo.
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Anche questo trovo sia un bel testo costruito con essenzialità per portare in sé una storia di vita importante e desolante, fino all’incontro con Marilù che forse introduce la speranza, definita poi con i tre righi di chiusura. Saper leggere nelle cose e negli eventi quotidiani è un valore aggiunto. Apprezzato.