Metaromanzo

Serie: Panchine


«Io vi ho portato la corona di fiori promessa

 e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là»

(L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal)


Si immaginava l’incipit del romanzo come quello di un film non ancora visto, ma già forse seguendo un’abusata consuetudine: con l’inquadratura della tomba di X. (non potendo più utilizzare la K. di una metamorfosi, evidentemente, e per quanto sia ben poco presente alla coscienza il significato di un posto vuoto “X” della mancanza), sulla quale si recano gruppi di persone diverse per un saluto postumo all’amico che li ha lasciati troppo presto, dopo una vita breve ma intensa, come si dice sempre del resto, creativamente vissuta, seppur con la modestia, usuale anche questa, di chi anche nel proprio romanzo, sulla propria tomba, all’età di diciannove anni, non riesce ad avanzare la pretesa di far scrivere “scrittore”, bensì, più morigeratamente, “giornalista”: ed era chiaramente già un azzardo, per la sua cultura familiare, la sua estrazione sociale, la sua provenienza genealogica, anche solo ipotizzare, nel sogno, nell’immaginario, nella finzione, di poter nella vita praticare una simile professione.

Si tratterà infatti di una richiesta, pur prudenzialmente abbassata da penna d’autore e d’artista ad articolista di testata editoriale, da scontare, come la punizione di un peccato di pensiero, attraverso la morte precoce del protagonista, e l’ambientazione della storia in un clima di malinconia persistente, che dovrà intridere tutte le pagine del romanzo, fino a costituirlo, in fondo, essenzialmente come prodotto di una nera sostanza biliosa stesa sulle pagine bianche.

Una malinconia ben corrispondente, del resto, a quella nostalgia anticipata per la prossima fine della scuola che improvvisamente – solo negli ultimissimi mesi e dopo lunghi anni passati a postulare la liberazione dagli obblighi scolastici – il giovane studente, seduto su una panchina adiacente alla riva del fiume, vede sorgere come dal nulla, ed ergersi terribile e spaventosa di fronte alla sua consapevolezza estrema ed amara: che ciò avveniva proprio quando era riuscito a conquistare, con grande fatica spesa nello sforzo di estroversione, e molta energia nervosa impiegata in resistenza interiore, un minimo grado di sicurezza in se stesso, capace di regalare moderati ma costanti momenti di piacere, per una certa scioltezza acquisita nelle relazioni con gli atri componenti della classe.

Una fine che peraltro non si poteva considerare una chiusura consueta, ovvero non si trattava stavolta di una conclusione simile a quelle già molte volte conosciuta: non l’uscita temporanea da vivere come semplice attesa o comunque in relazione con una nuova entrata, una fine sempre in rapporto con un altro inizio, bensì un epilogo vero e proprio, un finale che si annunciava come definitivo; ed ecco che, improvvisamente, la consapevolezza esigeva la gestione di un pensiero della perdita: di persone con le quali, forse, proprio adesso, dopo molto tempo di pubblico imbarazzo e distante sofferenza, il giovane era giunto ad instaurare un rapporto di maggior vicinanza, una relazione più privata, se non propriamente intima; persone che non avrebbe probabilmente più visto, perché non avrebbe avuto occasioni di rivederle: non le aveva create finora ed ora ben sapeva che non le avrebbe create neppure nel poco tempo rimasto, preferendo probabilmente crogiolarsi nella nostalgia del ricordo e del rimpianto, nella malinconia che precorre il distacco.

Serie: Panchine


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