Mi ricordo
Serie: La bambina che sapeva volare
- Episodio 1: Mi ricordo
STAGIONE 1
Certe volte mi sento come se fossi un personaggio di The Sims. Come se questa cittá, questa casa, me l’avessero costruite intorno. Pronte per il mio arrivo, personaggio immaginario, eppure concreto, di un insieme di algoritmi che mirano alla perfezione delle forme, dello spazio e persino del tempo. Il giorno, la notte. Mentre torno a casa vedo un lampione spegnersi, la sua luce si affievolisce fino a morire, fino al mio passaggio, ora si accende. Sa che sono qui. Che sto attraversando i metri percorribili che riesce a illuminare. Si accende e io passo oltre. Se mi fermassi a osservare il suo comportamento, penso, sarebbe strano. Gli altri passanti mi vedrebbero e risulterei goffa. Una donna che guarda un lampione senza apparente motivo. “Una donna” penso. Spesso sento di usare questa espressione impropriamente: sono una bambina nel corpo di una donna. Non piú ragazza, non piú giovane. Il seno grosso appesantisce il mio incedere, le caviglie sono gonfie perché oggi ho lavorato troppo. Un tempo avrei detto di me “una ragazza” ma ora non me la sento. Me la prendo però, mi imbarazza scoprirmi adulta nel corpo. Ho un terribile rapporto con le mie forme mature. Quando trovo in esse un certo grado, anche minimo, di sensualità mi ritraggo, mi sento ridicola. Se sono un personaggio, mi dico, perché mi hanno disegnata cosí? Chi mi ha creato perché mi ha dato questi fianchi larghi? Se avessi potuto disegnarmi da sola, scegliere come essere, sarei stata sottile, la pelle chiarissima a contrasto coi capelli scuri e gli occhi di un color nocciola che cambia al sole, virando verso il verde. Ma forse avrei vissuto comunque questa vita: in questa città e in questa casa concepite apposta per me. E lo stesso mi sarei resa protagonista di questo banale momento: un lampione si riaccende al mio passaggio. Però, c’é un però. Se io fossi stata il mio personaggio migliore, sottile e dagli occhi cervoni, mi sarei fermata a osservare l’anomalo comportamento della luce pubblica. Quel lampione mi avrebbe stranita nello stesso identico modo, inquietandomi. Ma senza dubbio non avrei avuto paura del giudizio dei passanti nella stasi di quell’attimo. Me lo sarei concessa. Me lo sarei goduta. Non sarei sembrata goffa, credo, ma interessante invece.
A casa non mi aspetta nessuno stasera. Posso fermarmi adesso, sedermi sui gradini di un ingresso qualsiasi, quasi a casa, ma non ancora nella via di casa. Questa è per me una scelta radicale: fermarmi e rischiare d’essere vista. Interrompere il mio ritorno e aspettare. Quando sono sola in casa il tempo ha uno strano modo di correre; penso di averne una certa quantità, sufficiente a fare tutto quello che mi sono imposta: cucinare, fare la lavatrice, lavarmi, riposarmi. Ma anche questo tempo mi sembra immaginato da qualcun altro. Trascorre senza darmi tregua e cucinare diventa un’operazione infinita e noiosa, cui seguono tutte le altre. Sono lenta e, mentre pensavo di metterci due ore a far tutto, ne sono passate piú di cinque. Sono stanca, mi dico. Mi alzo, rassegnata a rientrare, dal gradino di marmo non mio, di qualcuno degli altri personaggi di questo gioco, e vado via. Riprendo a camminare alzando la testa verso la cima degli olmi che ricoprono il cielo. Che fortuna. Il caldo è attutito da loro. Loro non mi danno mai la sensazione di essere stati messi lí apposta per farmi ombra. Eppure è proprio cosí. Non è una foresta questa città, le strade non sono state costruite su percorsi preesistenti in mezzo al bosco. Qualcuno ha scelto di piantare qui gli olmi, e ha fatto bene. Questo pensiero mi consola. Ho perso la precedenza al semaforo, mi sono distratta a guardare gli alberi. Per qualche minuto ho fatto una cosa che non mi concedo mai di fare in pubblico: stare ferma.
È una cosa che mi porto dietro dall’infanzia. Quando vivevo ancora al paese avevo sempre il timore di essere guardata mentre camminavo per strada, andando a scuola, in parrocchia o a trovare una mia amica, vicina di casa. Mi sforzavo di fare presto e non mi guardavo intorno. Se qualcuno mi salutava chiamando il mio nome un terribile crampo mi bloccava lo stomaco ed ero obbligata a rallentare. Le gambe rammollite come ricotta rendevano il passo cedevole e il rischio di sembrare goffa che avevo cercato disperatamente di evitare diventava reale. Era l’imbarazzo di stare al mondo. L’imbarazzo, soprattutto, di essere da sola per strada. Il mio corpo non poteva accettare lo sguardo degli altri. Se avessi potuto scegliere una nuvola di nebbia mi avrebbe coperta dal portone di casa a destinazione. O ancora meglio: avrei voluto volare sopra le teste dei paesani senza essere vista. Una bambina invisibile sospesa nel cielo. Quanto vorrei ricordarmi com’è volare.
Serie: La bambina che sapeva volare
- Episodio 1: Mi ricordo
Un gran bell’inizio, mi stupisco dei pochi commenti.
Scrittura esperta, sperimentata senza dubbio. Soprattutto il contenuto che, in qualche modo, va al di là della stessa protagonista coinvolgendo lettrici e lettori allo stesso modo. Il Tempo è una dimensione universale.
Molto efficace, davvero uno spunto notevole, lo sguardo del lampione che diventa poi quello del prossimo, lo stesso che faceva tremare le gambe di una bambina.
In questo piccolo testo c’è una maturità impressionante ed è, allo stesso tempo, la sua forza e la debolezza. Non si giudica una serie da un episodio, a volte mi è capitato in passato di assistere a virate impreviste, ma qui non c’è che dire, un varo da regina dei mari.
Grazie Robért per la fiducia!
Molto bello questo inizio di serie, mi piace come tratteggi la protagonista, viene voglia di conoscerla meglio. Mi sono anche ritrovata in alcune delle frasi che hai scritto.
Complimenti!
Grazie Melania!
“Quando sono sola in casa il tempo ha uno strano modo di correre;”
Buongiorno Olivia.
Un passaggio che descrive perfettamente il personaggio e il suo stato d’animo, insieme agli altri momenti che lo raccontano.
Vedremo come evolverà in seguito.
Grazie Antonio, sì il tempo è tutto per questa donna.