
Michele
Mi chiamo Michele. Il mio nome è un brutto tiro di mio padre. Il secondo, dopo quello di avermi concepito. Mi chiamo Michele come l’arcangelo dall’incarnato niveo, come migliaia di bambini in Italia, come un centinaio di bambini tra queste ottomila anime.
Michele piccolo, Michele grande, Michele mezzano. Michele l’antennista, l’orafo, il tubista, il macellaio, l’imbianchino, l’attacchino, il sorcio, il colombo, il serpente, il cane, il fesso, il tonto e il dritto.
Io sono Michele “u’ gnor” e non mi premuro di spiegarti il perché. Guardami, mi pare piuttosto evidente.
Ho dieci fratelli, distribuiti più o meno equamente per sesso, carattere, bellezza e intelligenza. Mia madre era etiope, mio padre non l’ho mai conosciuto, quello vero intendo. È annegato anni fa nei litri di vino trangugiati avidamente dall’uomo che viveva con noi e che, assente anche a se stesso, si arrogava a suon di botte il diritto di patria potestà.
Ho dieci figli anch’io che per loro fortuna, hanno la pelle chiara. La madre li ha lasciati a me anni fa. Era un medico in carriera, un chirurgo e non poteva occuparsi di loro. L’ho conosciuta in ambulatorio, sostituiva temporaneamente il dottore della mutua. Mi sono innamorato di lei ancor prima di vederla, solo annusando l’odore nell’anticamera e nonostante avessi il raffreddore. Non le ho mai confessato il mio amore né l’ho mai toccata. Le ho solo domandato la cortesia di fare dieci figli con me.
“Non si preoccupi, dottoressa” le ho detto, “faccio tutto da solo, li concepisco, li partorisco e me ne prendo cura io.”
Lei mi ha sorriso e mi ha detto: “Va bene, Michele. Va bene.”
Lo ha detto senza aggiungere “u’ gnor” e io le sono stato grato tre volte quel giorno: per il sorriso, per l’omissione e per la pelle bianca e profumata che ha regalato ai miei figli.
Quindi, a 25 anni, ho perso i miei dieci fratelli neri e sono diventato padre di dieci figli bianchi. Da allora vivono tutti qui. Riesci a vederli? Sono qui nella mia testa. I miei fratelli invece non so dove siano finiti.
È successo tutto così in fretta quel giorno, una brusca impennata al tempo in apparenza immobile. Mi vengono alla mente quelle strane statue viventi che ho visto anni fa a Firenze. Hai presente, sì? Sembrano statue ma sono persone, sembrano immobili ma se hai la pazienza di aspettare, ti accorgi che la materia viva li tradisce con fremiti e ammiccamenti. Anche la nostra vita sembrava stagnare in acque putride, eppure la puzza di violenza che quell’uomo – non mio padre, no, quell’altro – ci appiccicava addosso ogni giorno, evaporava con le lacrime di mia madre, con i lividi, con il sangue. Tra i denti rotti dei miei fratelli inciampava la rabbia, con gli aborti ripetuti delle mie sorelle spariva l’ombra del peccato e tutti probabilmente sapevano e nessuno parlava. Fintanto che un fatto è taciuto, non sarà mai reale. E poi, ci vuole tanta misericordia per riuscire a vedere il sangue sulla faccia di un nero.
Anche ai miei figli sono caduti i denti, io però li ho custoditi con cura. Guai a chi li tocca i miei figli. Nessuno si permette di avvicinarli perché in paese tutti hanno timore di me: Michele Murolo, Comandante generale dell’arma dei Carabinieri. Non mi credi? Se entri ancora nella mia testa ti faccio vedere i gradi. Puoi passare per questa cicatrice, vedi come è grossa? Se ti stringi un po’ ci passi. Questa è una cicatrice di guerra, me la sono fatta sul campo per difendere la patria. Ti racconto com’è andata.
Quel giorno l’uomo che teneva nascosto mio padre, senza ragione ne preavviso, mi assestò una botta in testa. Avevo la vista annebbiata dal sangue che mi colava dentro gli occhi incanalandosi nel solco al centro tra le sopracciglia per poi biforcarsi in prossimità del naso. Eppure, nonostante tutto quel rosso, vedevo quello che stava facendo ai miei fratelli. Vedevo le percosse, le sedie per aria, la furia, il terrore. Vedevo e non riuscivo ad alzarmi. Intanto cercavo tra le braccia di quell’uomo, sotto le pieghe della pelle, nella bocca spalancata e piena di bestemmie, tracce di mio padre. Mi misi finalmente in piedi. Lui si calò i pantaloni. Mi avvicinai e guardai anche lì, tra le gambe nude che minacciavano mia sorella. Guardai nelle mutande, tra i peli, nelle tasche dei calzoni a terra.
Non lo vidi. Bene, pensai, mio padre non è qui. Ne approfittai.
Fu un attimo. La finestra spalancata. Un urlo strozzato. Un tonfo sordo. Il silenzio. Le sirene. Le urla. Mio padre riverso sulla strada con le braghe calate. La mia famiglia liberata. La mia famiglia frantumata.
Mi chiamo Michele Murolo. Ho dieci figli. Sono Comandante generale dell’arma dei Carabinieri, insignito di medaglia al valore per aver difeso e liberato la patria dalla tirannia. Durante la guerra ho perso mia madre e i miei fratelli. Qualcuno dice che ho perso anche la testa. Io dico che l’ho solo difesa dall’infelicità.
Ti piace0 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Il racconto mi è piaciuto, l’ho letto tutto d’un fiato. Però ci sono alcune cose che non ho capito bene. Forse devo rileggere la storia.
Mi associo al commento di Melania, è ben scritto (tieni il lettore stretto alla pagina) e arrivano forti alcuni messaggi. Il soggetto è importante e la chiave narritava che hai scelto è certamente originale, ma anche più difficle: ci sono degli elementi un po’ criptici che, anche rileggendo (pure partendo dal fondo), non credo di aver colto. Ciao e grazie per la lettura
Un bel finale, si inserisce bene nella trama del racconto.
Ciao Teresa, è una storia che colpisce e, sotto un certo aspetto, scritta molto bene. Però, non credo mi sia arrivato tutto quello che avrebbe dovuto. In alcuni punti non l’ho proprio capita, magari è un mio limite e per altri è chiarissima così com’è.