Mind to mind

Serie: Morirò d'estate


«Ciao mamma, a Natale purtroppo non potrò venire» sussurrai al telefono.

Poi aggiunsi: «Mi dispiace, ma sono appena entrato in servizio e non posso ancora prendere giorni di ferie» mentii, cercando di convincerla con un tono persuasivo, mentre dentro di me sentivo crescere il senso di colpa.

Dall’altra parte della cornetta ci fu un silenzio che sembrò interminabile.

«Ok va bene, e a capodanno ci sarai?»

«No, mamma, mi ero già organizzato con Luigi, per festeggiare da lui» risposi.

Ma neanche questo era vero. 

«Va bene!» esclamò amaramente.

Luigi era, per me, come il ‘trauma cranico’ per mia madre: la soluzione ogniqualvolta qualcosa andava storto o non volevo vedere qualcuno.

Durante tutto il periodo delle festività, rimasi solo in quel container che mi sembrò improvvisamente grande come un universo chiuso e claustrofobico, dove il tempo sembrava non passare mai e la solitudine mi avvolgeva come un sudario.

La mia ombra sembrava l’unica compagnia, mentre la mia mente vagava tra pensieri di fuga, ossessione e disperazione. 

Fuga da Enza, ossessione per il cibo che bramavo e disperazione per un padre che per anni non mi aveva mai chiamato per nome, ma bastardo. 

Che poi, bastardo, per gli altri potevo anche essere considerato: infatti, pur vivendo da sempre con lui, non mi aveva mai riconosciuto. 

Per un lungo periodo pensai, o meglio sperai, di non essere veramente suo figlio: questo avrebbe spiegato il suo livore e il suo epiteto nei miei confronti. 

Poi però mi guardavo allo specchio e vedevo lui: gli stessi tratti mediterranei; gli stessi occhi tondi e grandi, gli stessi ricci ribelli e nero corvino e la stessa piccola voglia di caffellatte sul polpaccio sinistro. 

Era mio padre! 

Anche se lui non voleva. 

Anche se io desideravo che non lo fosse.

Mentre fuori, le case erano addobbate a festa e per le vie dell’isola risuonavano canti natalizi, io cercavo, in qualche modo, di uscire indenne da tutta quella felicità forzata che si respirava ovunque.

Non volevo rimanere in quella casa vuota e non volevo stare troppo in giro da solo, per non incontrare la pazza del paese.

Un noioso pomeriggio però, decisi di uscire per distrarmi un po’.

Camminavo senza una meta, osservavo le vetrine colorate e le luci che illuminavano le strade, mentre musica natalizia a random, continuava a sentirsi dagli altoparlanti sistemati negli angoli delle strade.

Girovagando, vidi una chiesa: due salici ai lati della scalinata, l’immagine di una santa sopra il grande portone d’ingresso e una scritta che non ricordo quale fosse.

L’ultima volta che ero entrato in una chiesa avevo quattordici anni: ero vestito come uno sposo in miniatura e un prete mi ungeva la fronte con olio profumato. 

“Confermazione” la chiamava la mia catechista: una vecchia arrabbiata col mondo e che vedeva il peccato ovunque. 

“Liberazione” la chiamai poi io. Perché da quel giorno non misi più piede in quel luogo.

Quel pomeriggio però, forse perché volevo acquietare le mie orecchie dalla musica, decisi di entrare.

La chiesa era semideserta: c’era una vecchietta seduta al primo banco alla sinistra dell’altare e accanto a lei un’altra signora forse più piccola, inginocchiata e con il volto coperto dalle mani in preghiera.

Mi sedetti nell’ultimo banco e rimasi a fissare l’immagine del crocefisso.

Era una croce particolare, diversa da quella che c’era nella mia chiesa. 

C’era infatti limmagine del Cristo Risorto: senza corona di spine, di bianco vestito, sorridente e con le mani aperte come un abbraccio.

Rimasi colpito, perché non ritraeva la solita immagine di un Gesù: morto sotto le torture e per dei peccati che non aveva commesso.

Mi ritenevo un ateo convinto, quindi, anche volendo pregare, non sapevo neanche da dove cominciare, mi limitai perciò, a stare in silenzio e a fissare quel crocefisso che mi sorrideva. 

Mentre ero lì, seduto nel mio angolino di banco, si avvicinò una persona, non fu neanche necessario che mi girassi nè che mi rivolgesse la parola.

Sapevo che era lei: Enza.

Avrei voluto scappare, ma le gambe erano come paralizzate.

Mi toccò delicatamente la spalla sinistra, io mi voltai di scatto verso di lei, che sorridendo mi disse: «Non avere paura di me! Non ne hai motivo». 

La sua voce non era più maschile e il suo accento non era straniero, ma i suoi piccoli occhi azzurri, profondi e abbaglianti, erano sempre gli stessi.

Avrei voluto dire qualcosa, ma non riuscivo a emettere alcun suono, come se la mia voce fosse stata cancellata dalla mia stessa angoscia.

«Non avere paura!» mi disse, probabilmente accorgendosi del mio terrore.

«Non è necessario che tu ti affanni a parlare. Guardami e io ti ascolterò! » in quel preciso istante mi accorsi che anche lei non muoveva le labbra.

Eppure io l’avevo sentita chiaramente. 

Avrei voluto chiederle perché mi stesse perseguitando, ma lei esclamò: «La mia non è persecuzione ma una realtà che devi affrontare e che ti condurrà alla felicità!»

Allora era vero? 

Allora ascoltava i miei pensieri? 

Sentivo che stavo impazzendo. 

«Non sei pazzo. Devi solo accettare te stesso» replicò lei. 

Deciso a capire, cosa mi stesse accadendo (d’altronde non potevo fare altro: ero paralizzato e muto) le chiesi immaginandolo: «Cosa dovrei fare?»

«Vai a casa, cucina un uovo e mangialo con un pezzetto di pane. Dopo bevi del vino e vai a dormire» disse.

E poi sparì. 

Ero smarrito e impaurito, ma anche deciso a capire.

Tornai a casa, prima però andai a comprare una bottiglia di vino, cucinai l’uovo e lo mangiai.

Ad ogni boccone era come se venissi trafitto da lame di fuoco che mi perforavano l’anima, provocandomi un dolore inspiegabile che mi faceva venire le lacrime agli occhi.

Mandavo giù il cibo e pensavo: «tranquillo Luca, poi andrai in bagno e le tue due dita magiche ti salveranno» mentre cercavo di trattenere i singhiozzi che mi scuotevano il petto.

Bevvi mezzo bicchiere di vino e fu come acqua fresca che spegneva il fuoco che mi bruciava dentro, calmando il mio dolore e lenendo la mia anima.

Andai a dormire. 

Quella sera non vomitai.

Continua...

Serie: Morirò d'estate


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Un altro pezzetto della storia che cattura l’ attenzione. Sono tanti i punti interrogativi che restano, dopo aver letto anche il quarto episodio. Non mi resta che aspettare il prosieguo della storia per saperne di piú sul padre, su Enza, su Luigi e tutto il resto.

  2. L’immagine del Cristo che hai descritto è quella che ogni persona che soffre vuole vedere: due braccia in cui potersi abbandonare. Riguardo al consiglio di Enza non so quanto sia costruttivo. Potrebbe contenere una soluzione negativa. Bravo, Corrado.

  3. La vecchia Enza comincia a calare in tavola una carta. Pochino per la verità, ma meglio di niente. Sarebbe banale pensare che sia la coscenza del protagonista (a manifestarsi in tal guisa) e consigliarlo per il suo bene, ma intanto s’è mangiato un uovo e l’ha tenuto giù; forse un effetto del vino, quando è buono, fa miracoli… Un po’ come un crocefisso senza croce. Grazie per la lettura

    1. @rusaniol ciao, hai ragione sarebbe banale e scontato relegare Enza alla coscienza (personificata) di Luca. Così condivido che il vino (soprattutto se buono) può fare miracoli.

      Grazie per aver prestato attenzione al mio racconto. ☺️

  4. Ciao Corrado. La storia prosegue meravigliosamente con una delicata presa in mano della situazione del nostro Luca. Questo episodio, seppur con una sua dose di mistero l’ho trovato più tenero e speranzoso, come se l’elemento più inquietante mutasse e si rivelasse qualcosa di incoraggiante che sembra voler prendere per mano il protagonista. Molto bello

    1. @GuglielmoFava ciao, mi fa piacere che tu abbia notato il mutamento di atmosfera che volevo trasmettere ☺️ non volevo fossilizzarmi solo sull’aspetto mystery nè sull’angoscia del mio personaggio, anche se questo tratto lo caratterizza particolarmente, ma non volevo venisse fuori solo questo lato.