Mio padre
Intanto chiariamo ogni possibile malinteso: mio padre è morto.
Se ne è andato un ottobre di pochi anni fa.
La sua scomparsa non è arrivata come un ladro nella notte, in modo insensato e truffaldino, ma è stata frutto di un doloroso e lungo crescendo.
Era già tutto scritto, quando, il giorno stesso dell’inizio della sua meritata pensione, dopo aver lavorato una vita per farci vivere una vita senza problemi, un sinistro tremolio si impadronì della sua mano sinistra.
Il verdetto fu severo quanto inappellabile: morbo di Parkinson.
Lui fu abbastanza sereno nel ricevere codesta condanna ma fu mamma a comunicarmelo, perché babbo tendeva sempre a sminuire la qualsiasi. Faceva parte del suo carattere, nel bene e nel male.
La sua frase guida è stata, oltre a un senso del dovere quasi prussiano nei confronti del lavoro, tale da arrivare anche a trascurare il tempo libero (usato principalmente per stare al mare o ad amare – non riamato – il gioco del bridge), “più fuoco vedo meno mi scaldo”. Ogni volta che – preda dell’entusiasmo giovanile – andavo a comunicargli una vittoria, lui tentennava la testa e ripeteva il suo mantra “più fuoco vedo meno mi scaldo”.
Più fuoco vedo/meno mi scaldo, un motto apparentemente innocuo, ma che sapeva bruciare come il ghiaccio dentro la vita interiore di un figlio. Mi sono sempre interrogato sul significato profondo di quell’adagio.
L’ho capito molto tempo dopo, e dopo averci sofferto per un bel po’.
Perché ti faceva sentire come Riccardo III°, fatto a metà, non finito, sempre in divenire.
Ma come, mi chiedevo, se ho fatto bene una cosa perché non mi festeggi?
E, invece, nelle sue intenzioni era come dire: attento figlio mio, sta’ sempre coi piedi per terra, e non ti compiacere.
Non è buffa la vita?
Quello che per una persona è una cosa fatta con le migliori intenzioni, per un’altra può essere recepita come la peggiore. E così fu per me, gettato nelle insidiose sabbie dell’insicurezza da una frase detta con la testa tentennante.
Eppure la sua storia me l’aveva raccontata un miliardo di volte.
Dopo le ristrettezze della guerra, rimasto orfano a 15 anni, fu spedito dalla madre a lavorare in un panificio per contribuire alle spese di casa.
Lavorando come un mulo, era riuscito a diplomarsi ragioniere e financo a iscriversi a Economia e commercio.
Ma le sue ambizioni universitarie dovettero cedere il passo alla dura realtà, non c’erano soldi per la vita universitaria. Da lì finì a lavorare in banca, dove discusse col direttore che faceva un bieco nepotismo, e si guadagnò un licenziamento. Una ferita mai risanata, tanto che si ripromise di lavorare così tanto da non permettere mai più a nessuno di dirgli “sei fuori”. Diventò uno stakanovista del lavoro. Le ditte di zona fecero i salti mortali per accaparrarsi un lavoratore indefesso come lui, uno della vecchia scuola che tirava diritto a testa bassa, senza lamentarsi. Fino a che Milano, la capitale finanziaria d’Italia, si accorse di lui, e lo chiamò a sé.
A Milano sono nato io.
Il secondogenito, quello che avrebbe dovuto – nei suoi piani – fare carriera, sì proprio come i figli dei suoi colleghi.
Che dispiacere devo avergli dato quando mi ribellai ai suoi piani.
Quando gli dissi che io non ero quello che lui aveva immaginato ma che io ero io. E basta.
Un figlio senza il pallino degli affari, anzi del tutto indifferente alla vita economica e ai guadagni ma ben desideroso di costruire una propria vita intima, fatta di fantasia e di relazioni sociali, senza tornaconti.
Dopo un’iniziale faida famigliare, dove per un periodo mi tolse anche il saluto, lui dovette piegarsi alla mia natura.
L’ebbi vinta.
Lasciai la facoltà che lui aveva deciso per me e gli portai prove tangibili della mia predisposizione umanistica.
Nella nuova università iniziai a macinare successi, voti alti ed esami dati a ritmi mai visti prima.
Leggevo libri su libri, giorno e notte, senza tregua.
Divoravo ogni forma d’arte, dalla musica sacra ai film scollacciati anni ’70.
Perfezionai la mia educazione estetica con il teatro, dove ebbi anche un certo successo, pur se a livello cittadino.
Babbo, comunque, era sempre in prima fila ai miei spettacoli. Mentre recitavo sul palco lo intravedevo in platea fra il pubblico. E sapevo che, anche se vedeva il fuoco e non si scaldava, era comunque orgoglioso di me, a modo suo, sia chiaro, sempre.
Poi ancora una volta cambiai strada.
E lì mio padre non mi capì più, definitivamente.
I nostri colloqui si diradarono fino a interrompersi.
Per anni ci siamo frequentati col contagocce.
Mi trasferii seguendo un amore appena nato, cambiai città, mi detti anima e corpo all’insegnamento, la mia vera vocazione, seppur tardiva.
Che fatica, o miei pochi preziosi lettori, far capire a un ragioniere d’acciaio cosa vuol dire vivere spiegando Platone e Aristotele in un mondo votato al consumismo e ai subiti guadagni.
Non potete immaginare, o forse sì. Chissà.
A volte mi sento come un giocatore di Polo in mezzo a una partita di Rugby.
Ma tardi, molto tardi, ho capito che era quello che cercava di dirmi anche lui.
Ho capito, figlio mio, sei un giocatore di Polo: non so come dirtelo che ho capito: ma quelli ti vengono addosso per farti a pezzi. Lo vuoi capire, cristo, che vengono a farti a pezzi?!
Non ci sono riusciti, babbo, tranquillo.
Anche se non ho seguito alla lettera i tuoi dettami, anche a modo mio – sbagliando e risbagliando – sono rimasto in piedi.
Ammaccato, ferito, smarrito a volte in qualche bar.
Ma sono in piedi.
E sorrido al vento, nonostante la maschera di sangue.
Con la punta della lingua posso sentirne il sapore ferroso, sai?
Quel poco che ho appreso da te mi ha mantenuto saldo, in piedi.
Comunque.
Adesso dormi, babbo, tu riposati.
Domani riprendo la spada e lo scudo.
E procedo avanti.
A testa alta.
Fino all’ultimo.
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un racconto che sa di redenzione, perdono e amore.
E il mix ti resta tra i denti, non affatto semplice da mandare giù.
Ciò che salva in questo racconto, e nella vita, è che la sana ribellione – come nel tuo caso – è il miglior riconoscimento che si possa dare ai propri genitori facendogli capire di avere capito il senso profondo dei loro duri insegnamenti.
Sono sicuro che da lassù ti sta continuando a ripetere la solita frase, ma guardandoti si scalda eccome.
Nessun genitore è completamente diverso dal figlio e viceversa; poi ci sono quelli che ostentano durezza e, come dice un detto, baciano i figli solo quando dormono. Un testo molto scorrevole che si legge tutto d’un fiato. Bravo, Simone.
Parole sante. Grazie Concetta.