
Misere Riflessioni d’una Donna
Serie: L'Inguaribile Piaga che è il Vivere
- Episodio 1: La Terra-Mercurio e il Germoglio di Soia
- Episodio 2: Intermezzo Prima del Vuoto
- Episodio 3: Misere Riflessioni d’una Donna
STAGIONE 1
Rigiravo le mani sudate nelle tasche della mia giacca, stringendole ripetutamente, come se quel misero movimento che facevo e rifacevo servisse a placare la mia agitazione, il palpitare del mio cuore, il tremore nelle mie dita. Eppure, mi ripetevo, era quello che volevo; lasciare Tokyo. La mia liberazione, un foglio bianco nella mia vita da nulla, una svolta che, finalmente, avrebbe cambiato le cose.
Sentivo il rumore delle valigie, dei trolley troppo pieni, dei borsoni e degli zaini, delle voci di quelle persone che come me sarebbero partite, ognuna per chissà dove, attraversando il mondo nella sua vastità. Sentivo il suono dell’orologio, le tenui vibrazioni delle lancette sotto il mio pollice mentre premevo sul vetro sottile, forse in un tentativo di rimandare la mia imminente partenza, forse per rallentare l’inevitabile passare del tempo – che, come un ruscello, scorre, né lento né veloce, attraverso le nostre vite, per raggiungere infine il mare, l’apice del suo corso, del proprio tempo.
“Hikari.” E quando ti guardai, Megumi, quando ti guardai negli occhi, in quegli occhi color delle castagne, sentii una fitta al cuore, una stretta alla gola che mi fece mancare l’aria, mi impedì respirare. Ma tu non facevi altro che guardarmi, in silenzio, senza dire una parola. ‘Perché non parli?’ Avrei voluto che mi dicessi qualcosa, una cosa qualunque, la prima ad attraversarti la mente; ma non parlavi, non dicevi niente. Eppure riuscivo a vederle, tutte quelle parole, tutti quei pensieri che sfrecciano, uno dopo l’altro, dietro i tuoi occhi, nelle profondità della tua testa, singolare, così difficile da non amare.
Mi prendesti la mano, le tue dita intrecciate con le mie, ed in quel momento, non ero io che stavi guardando, ma lo schermo degli imbarchi.
“È ora.” La tua voce mi oltrepassò, un fascio di luce attraverso un bicchiere di vetro, e il mio mondo mi si sgretolava sotto i piedi, i muri crollavano e le finestre andavano in frantumi. Improvvisamente dell’aeroporto non rimase più nulla, non un muro, non una porta, niente, non un ricordo, nemmeno delle macerie.
Mi trovai allora in una pianura deserta, se non per la pista di atterraggio, ma quando mi voltai per guardarti, tu non c’eri più. Megumi, ti chiamavo, ma non rispondevi, non ti sentii. Corsi, gridando il tuo nome, cercando invano di nascondere la paura che mi prendeva l’anima. Poi, ti vidi, in mezzo alla pista mentre guardavi l’orizzonte, voltato verso quel cielo cremisi estendendosi sotto i tuoi occhi, come la tela di un pittore, un quadro bellissimo. Allungai il braccio verso di te, verso la tua spalla, ma il terreno mi si sgretolò sotto i piedi, lasciandomi cadere nel vuoto, un vuoto senza fine, bianco, eterno.
“Hikari.” d’un tratto mi ritrovai di nuovo al tuo fianco, in quell’aeroporto troppo affollato, le lancette del mio orologio sotto la punta del mio dito. Ti guardai con gli occhi di chi ha smarrito la strada, di un animale con i fari puntati addosso, di un bambino senza la sua mamma e tu, tu Megumi, tu e la tua anima amabile, mi stringesti la mano – impercettibile, leggero.
E nei tuoi occhi castani vidi le stelle e i pianeti, la terra e il mare, gli alberi d’autunno e le loro foglie gialle, le margherite d’estate e i mughetti in primavera. Nei tuoi occhi castani vidi la tua anima, bianca e rosa e blu, profumata come un lenzuolo steso al sole, come l’erba appena tagliata, come la nebbia di sera.
Era arrivato il momento di salutarti, mancava poco alla mia partenza, dovevo andare. Sentii le tue dita che lasciarono le mie per poi cadere al tuo fianco, come prive di vita, di uno scopo. E tu mi lasciasti andare, rimanendo in silenzio mentre mi dirigevo verso lo sportello dei controlli, non ti muovesti quando arrivai davanti quelle porte colorate d’azzurro.
Mi voltai un’ultima volta – ma non avrei dovuto, per nessuna ragione al mondo. Eppure era ormai tardi quando mi voltai, verso di te, verso i tuoi capelli scompigliati, ed fu in quel momento che sentii il cuore fermarmisi nel petto, quasi cadere, morendo tra le mie costole, dietro al mio seno.
Guardavo le tue labbra rosee, morbide, e fu lì, sul tuo volto, sulla tua bocca, che le vidi, quelle parole; ti amo. Sentivo quella frase come se l’avessi sussurrata di fianco al mio orecchio, dolce, sottile, fin troppo amara.
Ti guardavo andare via, le mani nelle tasche del tuo giubbotto, ed non ce la feci più, Megumi; allora piansi, finalmente, piansi come se le persone intorno a me non ci fossero, come se non fossi io a lasciarti, come se non avessi deciso io di andarmene. Piangevo, Megumi, e tu te ne andavi.
…
Ero stanca.
Quella sensazione che ti grava sulle spalle, quel tipo di stanchezza che ti prende dall’interno, ti pervade senza lasciare un angolo scoperto. Per una volta, mi sarebbe piaciuto addormentarmi, dormire per l’intera durata di quel tragitto fin troppo corto, e forse, mi attraversava il pensiero, forse mi sarebbe piaciuto non svegliarmi più.
Non svegliarmi per vivere in quel mondo onirico, beato, dove le cascate cadono piano, gli uccelli volano immobili nel cielo, come sospesi, tenuti da fili sottilissimi, invisibili. Non svegliarmi per vivere in quel mondo dove la brezza tiepida accarezza le mie guance, dove l’acqua fresca dei ruscelli mi bagna le caviglie, un’acqua in cui mi potrei permettere di annegare, avvolgendomi completamente, interamente, nella sua limpidezza. Non svegliarmi per non vivere in questo nostro mondo, freddo, reale; fin troppo. Un mondo dove gli occhi sono ovunque, un mondo dove ogni tocco è senza affetto, dove ogni sguardo, ogni pensiero è rivolto verso un futuro poco concreto, incerto, impossibile. Un mondo dove non vale la pena vivere.
Ma forse era soltanto una visione distorta della realtà, una visione troppo bianca o troppo nera, senza le sfaccettature che caratterizzano l’animo umano, senza quel bellissimo grigio che sfuma in bianco tenue oppure ancora in nero profondo. Ecco, forse era solo questo, la mia visione distorta del mondo, qualunque esso sia, in qualsiasi forma esso si presenti, una distorsione tale da provocarne lo snaturamento completo, uno stravolgimento profondo, menzognero. E dunque giunti a questo punto, dove vero e falso diventano indistinguibili, dove bianco e nero si mischiano e s’intrecciano in una constante confusione del sé, dell’essere, come potrei parlare di crudeltà, di freddezza, in un mondo a me sconosciuto? Come potrei, ormai giunti così lontani, così distanti dalla verità (che anch’essa si nasconde, come una fanciulla, dietro alle frasche, come un lampione spento dietro alla coltre di nebbia) proferire un giudizio, formulare un’opinione, se tutto ciò che vedo e percepisco si basa su questa mia arbitraria comprensione di ciò che mi circonda? Forse, dopo tutto, questa mia difficoltà è dovuta solamente alla mancanza di un vero e proprio legame con il reale.
Ciò nonostante, Megumi, mi chiedo; “sono reale io?”
Rispondimi Megumi, te ne prego. Rispondimi. Eppure non c’eri più. Il mio piccolo Megumi non c’era più. Faceva male, mio caro Megumi, faceva male fino a morirne, perché sono stata io ad andarmene, sono stata io a lasciarti indietro. E per la prima volta, per la prima volta nei miseri anni della mia vita, pregai. Pregai per il tuo perdono, per il perdono di quel Dio in cui credevano i miei, quel Dio che li ha accolti dopo l’incidente che me li portò via entrambi, magnanimo, buono.
Sarà pure stata eresia la mia, ma per me tu eri come quel Dio, buono e caldo e contento, con quel sorriso che non potevo fare a meno di condividere ogni volta che me lo rivolgevi. Ed io, stupida, che non ti ho mai ringraziato, io, ingenua, che pensavo che ti avrei avuto al mio fianco per sempre. Perché non ti avrei visto mai più, Megumi, lo sento, e, se per puro caso, quel Dio magnanimo avrebbe voluto che ci rincontrassimo, non saremmo stati più gli stessi.
Quindi perdonami, Megumi, perdonami.
Perdona me e la mia follia, perdona il mio egoismo, la mia brama di cambiamento, di aria nuova; perché in fondo, non era il cambiamento che cercavo, né dell’aria fresca, ma bensì una vita, una vita a cui potermi aggrappare, una vita da vivere. Ti supplico, in ginocchio, le mani giunte tra la mia fronte e il suolo, ti supplico, Megumi, perdonami.
E nel caso tu non volessi perdonarmi, nel caso tu non volessi concedermi questo respiro, non averne a male, poiché accetterò anche quella tua decisione. La accetterò e sparirò dalla tua vita, come ora sto pian piano scomparendo dal tuo mondo, eclissandomi negli abissi di questa mia vita da pazza.
Sai, Megumi, il posto a fianco è vuoto.
Serie: L'Inguaribile Piaga che è il Vivere
- Episodio 1: La Terra-Mercurio e il Germoglio di Soia
- Episodio 2: Intermezzo Prima del Vuoto
- Episodio 3: Misere Riflessioni d’una Donna
La separazione di due persone che si amano… Il dolore di Hikari è struggente e mi ha colpito.
Ti devo ancora fare i complimenti!
Ed io ti ringrazio ancora una volta per aver letto e commentato!