Monia

Eccomi, Monia, con la pelle color rame, frutto di chissà quali spiagge remote o pomeriggi interi passati a cuocere al sole, come se la vita la misurasse a pigmenti, più è scura, più è vissuta. E di cose da fare ne ha, sempre. La vedo dal balcone, la mia postazione privilegiata su questo teatro di strada che è la nostra via. Passa con la sua gonna gialla che fruscia ad ogni passo, un sole in movimento in questa mattinata già afosa. La schiena, Monia, la sua schiena nuda, è nera e liscia come una duna di sabbia battuta dal vento del deserto. Sembra di velluto, eppure è roccia, così forte da portarla via, dritta, senza un’incertezza.

Mi attraversa gli occhi, la Monia abbronzatissima, ma i suoi non si alzano. Neanche un fremito. Neanche un cenno, quel piccolo, insignificante gesto di alzare la mano e muoverla, come si fa tra vicini, tra persone che si sono scambiate magari solo un “buongiorno” per anni, ma che in quel “buongiorno” ci mettevano un pezzo di storia condivisa. Niente. Fa finta che non ci sono. Fa finta che non sono mai esistito. E io, con la tazza di caffè che si raffredda tra le dita, mi sento evaporare, diventare trasparente.

È una cosa strana, questa, che mi succede da un po’. Come se il mondo si fosse diviso in due: quelli che hanno qualcuno e quelli che non ce l’hanno. E quelli come me, che non hanno nessuno con cui dividere il peso della spesa o il silenzio della sera, vengono emarginati. Le coppie ci guardano come fossimo creature aliene, fuori posto, quasi fastidiose. O forse, più probabilmente, è il marito di Monia, quello che passa sempre con la sua auto lucida e lo sguardo da padrone, che è geloso. Geloso di cosa, poi? Della possibilità di un saluto? Di un sorriso tra me e sua moglie?

“Non potrai avere contatto con altre donne che non siano tue.” È una frase che mi ronza in testa, un’eco lontana di chissà quali prediche antiche o discorsi sentiti al bar. Ma io, di donne, non ne ho. Non ne ho mai avute, in quel senso di “possesso” che sembra l’unica moneta di scambio in questo mondo di due a due. Non desiderare la donna d’altri, mi dicono. E l’uomo d’altri, aggiungo io, perché qui è un tutti contro tutti, una corsa al possesso. Tutti sono posseduti da qualcun altro. Legati da fili invisibili, o magari da catene d’oro zecchino, che li tengono ancorati. Tutti, tranne me.

E questo, paradossalmente, mi crea una sofferenza bruciante, invece di farmi sentire libero. È come se fossi stato condizionato per tutta la vita a desiderare quelle catene, a volere quella gabbia, perché era l’unica forma di sicurezza che conoscessi. Adesso che potrei volare via, adesso che le sbarre sono aperte e il cielo è lì, immenso e vuoto sopra di me, non ricordo come si aprono le ali. Le cerco, le mie ali, come un fantasma che non ha più un corpo, le cerco ma sono atrofizzate, dimenticate.

Intanto, chissà dove, Lola corre. Corre a cercare il pazzo nel manicomio di Roccasviluta, un luogo che sa di leggenda e di disperazione. Lola, che pur di non restare abbandonata, preferisce stare con un uomo che, per la sua stessa condizione, non può abbandonarla. Una scelta estrema, forse folle, ma che in qualche modo capisco. Perché l’abbandono, quel vuoto che Monia ha lasciato oggi con un solo sguardo mancato, è un abisso che ti trascina giù, e Lola, a modo suo, ha trovato un modo per ancorarsi, per non cadere. E io, dal mio balcone, mi chiedo se troverò mai le mie ali, o se continuerò a guardare il mondo passare, aspettando un saluto che non arriva più.

Avete messo Mi Piace1 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Ho letto con piacere. il soggetto è interessante e la scrittura melanconica risulta enfatizzata dalla narrazione in prima persona. Nella chiusura, mi è poco chiara la figura di Lola, giacché precedentemente dice che di donne non ne ha mai avute… o forse c’è del sarcasmo in quell’affermazione. Inoltre, se è sempre stato solo, da cosa dovrebbe avere ora l’opportunità di liberarsi (volare via)? Grazie per la lettura

      1. ok, ora mi è chiaro. Anche in questo caso, credo che il tema meriti più spazio, perché il contraltare della solitudine è mettersi in gioco, aprirsi a qualcuno (non è semplicemente una questione di possesso, come giustamente proponi…) e questa cosa implica coraggio e di correre dei rischi, quei rischi dai quali la solitudine mette al riparo. In definitiva, credo che il tuo racconto attinga da un bel soggetto, ma meriti di essere approfondito di più, grazie ancora, ciao

  2. Il tuo racconto mi ha colpita per il suo realismo. Parla di solitudine, di sentirsi invisibili anche tra le persone che si vedono ogni giorno. E quante volte ci capita. Il protagonista osserva Monia dal balcone, sperando in un saluto che non arriva mai, e da lì parte una riflessione amara su quanto possa pesare non avere una persona accanto. È scritto in modo chiaro, coinvolgente, e fa riflettere su come, a volte, anche un piccolo gesto mancato possa farci sentire tagliati fuori dal mondo.